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Ultimamente il mio interessa per la politica si ferma quando leggo ste cose.

 

Mio padre per prendere un giorno di permesso deve litigare una settimana minimo, questi in aula fanno quel cazzo che vogliono (senatori ,deputati e ministri). Parliamo pure di lavoro, ma prima di tutto del loro che poco stipendiato certo non è.

 

"E io pago..." :chetristezza

 

MAIALI

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A me Berlusconi non piace, ma un minimo di persecuzione mi sa che c'è davvero... Se continuano così lo voto. Giuro.   Va bene che è un politico poco risolutivo e che non ha fatto tutto quello che g

Allora mettiamo qualche puntino sulle i perché sinceramente mi sono rotto di assistere a continui ribaltamenti della realtà.   La discussione è partita as usual tra me e Keitaro. Io dicevo di esse

Abbiamo smacchiato il giaguaro :D

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Matteo Renzi sempre in tv, ma non in Consiglio. E vanno in fumo 36 milioni Ue

Il sindaco di Firenze non manca mai agli appuntamenti con il piccolo schermo, ma nel 2012 ha partecipato ai lavori comunali 8 volte su 45. Nel 2013 a 7 su 17. Peggio di lui solo Alemanno. Intanto la città dovrà rinunciare ai fondi europei per i ritardi nel completamento della tramvia

 

“Un comportamento indecoroso”. Tommaso Grassi, consigliere dell’opposizione di sinistra alla giunta Renzi, bolla così un dato statistico che inchioda il sindaco di Firenze: è il meno presente in Consiglio comunale tra i sindaci delle grandi città italiane. Soprattutto se, accanto a questo dato, si leggono anche fallimenti importanti, come i 36,6 milioni di euro di fondi europei persi per il completamento della tramvia a causa di tre fattori fondamentali: le difficoltà economiche del costruttore (Impresa S.p.a. subentrato alle già fallite Btp e Consorzio etruria), il restringimento del credito bancario in seguito alla crisi economica, le incertezze del progetto e dello strumento finanziario scelto, quello del project financing. Il sindaco Matteo Renzi, proiettato a giorni alterni alla guida del Partito democratico e a Palazzo Chigi, nel 2012 ha partecipato a 8 sedute su 45 del Consiglio comunale. Dall’inizio del 2013 a oggi è comparso nello scranno del primo cittadino nel Salone de’ Dugento 7 volte su 17.

 

Per capire se sono medie normali per un sindaco, sufficienti al rispetto dovuto alle istituzioni democratiche, basta fare un giro nelle altre grandi città italiane. Nel 2013 solo Gianni Alemanno, appena bocciato dai romani, aveva fatto peggio: 7 su 30. Marco Doria a Genova ha preso parte a 25 Consigli su 27 nel 2012 e quest’anno non ha mai mancato l’appuntamento: già 18 all’attivo. Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia viaggia a quote altissime: 66 su 86 nel 2012 e 17 su 22 in questo primo semestre 2013. Anche Piero Fassino a Torino non fa mancare quasi mai la sua presenza: 47 su 56 nel 2012 e 18 su 20 nel 2013. Luigi De Magistris a Napoli si è assentato dai lavori consiliari soltanto due volte dal gennaio 2012 a oggi, toccando quota 49 su 51.

 

Tra un’ospitata televisiva e l’altra è molto difficile riuscire a fare il sindaco di Firenze, “il mestiere più bello del mondo”, come amava definire lo stesso Renzi il suo incarico. E quante volte durante le primarie di novembre lo stesso Renzi ha incalzato: “Bisogna usare meglio i fondi europei”. Peccato che è di questi giorni la notizia che proprio Firenze rinuncerà a 36,6 milioni. “Il sindaco fallisce – afferma la consigliera comunale, Ornella De Zordo – in una delle sue promesse più vendute”. Cioè la costruzione delle linee 2 e 3 della tramvia, la metro di superficie che oggi con una sola linea collega la città a Scandicci. Bruxelles aveva fissato delle scadenze precise: tutto pronto entro il 2015 o niente soldi. Palazzo Vecchio dà la colpa alla crisi che fa fallire le imprese, ma il problema è legato anche alle incertezze del progetto e dello strumento finanziario scelto, quello, appunto, del project financing.

 

Il governatore della Toscana, Enrico Rossi, va su tutte le furie e tenta di metterci una pezza con una nota ufficiale: “Proveremo a convincere l’Unione europea a considerare una rimodulazione di quei fondi”, in vista della riunione del prossimo 20 giugno a Bruxelles, perché “continuiamo a pensare che quell’opera sia strategica per il capoluogo di questa regione, non realizzarla rappresenterebbe un fallimento di tutti i nostri piani sulla mobilità”. E tra Rossi e Renzi i rapporti, tramvia a parte, sono ai minimi termini rispetto alle scelte amministrative e ai partner per realizzarle. Infatti, Rossi ha appena risposto con un secco “no” alle tentazioni toscane di Flavio Briatore: l’idea era quella di costruire un super mega ultra campo da golf a Bibbona. “Briatore propone campi da golf da tutte le parti, ma l’ultima struttura discussa in Toscana era da 77 ettari, non si può fare così”: bocciato da Enrico Rossi, il berlusconiano Briatore potrebbe tornare comodo proprio al boy scout di Rignano sull’Arno, di cui è da sempre grande fan: “Se si candidasse premier lo voterei al 100 per cento”. Infatti lo stesso Renzi, che soltanto pochi giorni fa ha pranzato a Firenze con Briatore, ha inserito nel suo piano di rilancio del Parco delle Cascine, il cuore verde al centro della città, proprio un campo da golf. Il progetto è inserito in un masterplan che dovrebbe essere concretizzato entro il 2015.

 

Intanto il sindaco annuncia su Facebook: “Messaggio per i fiorentini. Domani faremo l’ultima giunta programmatica della legislatura: metteremo giù l’elenco delle priorità per chiudere cinque anni di lavoro bello e intenso. In nottata faremo un giro anche a controllare i tanti cantieri stradali su cui lavoriamo di notte per non intralciare il traffico come da impegno pre-elettorale. Segnalatemi, se vi va, le vostre priorità e le vostre proposte sull’ultimo anno di azione amministrativa. E già che ci siete dateci un consiglio su dove mettere gli ultimi cinque fontanelli dell’acqua naturale e gassata di Publiacqua”.

 

di Giampiero Calapà e Sara Frangini

 

da Il Fatto Quotidiano del 13 giugno 2013

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Caro Beppe Grillo, il dissenso è la ricchezza della nuova politica

Questo è il testo che ho inviato ieri a Beppe Grillo chiedendo che lo ospiti come post sul suo sito. Oggi lo ho inviato a tutti i parlamentari del M5S.

 

Caro Beppe,

 

ho letto il tuo post di oggi (giovedì 13 giugno), in cui chiedi a chiunque faccia parte della “voce esplosa a fine febbraio, con nove milioni di voti al MoVimento 5 Stelle” e “poi diventata più flebile” di far sentire la propria voce (ovunque: “nei bar, nei taxi, al lavoro, negli studi televisivi, in rete, nei tribunali …”). Poiché cerco di farlo senza interruzione da 52 anni (la prima manifestazione a cui partecipai è del 1961, quando avevo 17 anni, per la libertà in Spagna), accolgo molto volentieri il tuo invito, ed essendo uno dei nove milioni che ha votato M5S mando questo post al tuo blog, sperando che tu voglia pubblicarlo, prendendo alla lettera quello che tu anche oggi ribadisci: “Ognuno deve valere uno per riportare la democrazia in questo Paese”.

 

In realtà, dal punto di vista della possibilità di comunicare, tu ed io siamo dei privilegiati, abbiamo più strumenti per essere ascoltati di un cittadino nella media (tu naturalmente molto più di me), e questo aumenta le nostre responsabilità, che sono proporzionali alla visibilità che abbiamo.

 

La prima responsabilità è quella di dire la verità, tutta la verità niente altro che la verità, e la seconda di fare in modo che quei 9 milioni di voti non si disperdano, non diminuiscano, anzi si accrescano, per portare l’Italia a quella svolta che l’establishment del privilegio chiama “antipolitica” e che invece è solo “Altrapolitica”, contro corruzione, mafie, Casta.

 

Oggi quei nove milioni non ci sono già più, questa è la prima, benché amara, verità da cui dobbiamo partire. Perché in tre mesi si sono ridotti alla metà, e in alcune zone (comprese Roma e la Sicilia) a un terzo? Una parlamentare del M5S, la senatrice Adele Gambaro (una militante della prima ora) tra queste cause ha messo “i toni” della tua comunicazione. Può essere che sbagli del tutto o che abbia ragione solo parzialmente o che abbia messo il dito sulla piaga. Se si vuole discutere seriamente bisogna farlo senza tabù. E se ci si prende sul serio, se “ognuno vale uno”, la semplice logica impone che nessuno possa dire che “qualcuno vale niente”.

 

Personalmente non credo che si tratti solo dei “toni” della tua comunicazione. Perché sono anche quei “toni”, che hanno trasformato il tuo “Tsunami tour” in uno tsunami nelle urne delle politiche di tre mesi fa, con più di un elettore su quattro a votare M5S.

 

Quei “toni” tre mesi fa raccoglievano consensi ciclopici, oggi però non più. Cosa è successo? In un tuo blog di quattro giorni fa (“C’è chi ha votato il M5S perché …”) sono elencate tutte le ragioni per cui elettori molto diversi e con diverse motivazioni hanno realizzato lo tsunami dei nove milioni di voti. Erano comunque uniti su un punto: volevano che quei voti contassero, subito. Non per fare accordi da vecchia politica, ma per incidere contro la vecchia politica senza aspettare le calende greche del 51% (la demenza tipo partito a vocazione maggioritaria lasciamola a Veltroni). In tre mesi non è accaduto. Un mare di polemiche autoreferenziali, “chi fa x è fuori”, “chi dice y è fuori”, mentre una politica nuova sa essere molto più libera della falsa libertà dei partiti, e dunque non solo tollera il dissenso ma lo considera parte integrante della propria ricchezza.

 

In questi tre mesi è mancata l’azione. Fuori, ancor più che dentro il Parlamento. Fuori, esistono molti movimenti (di lotta su temi diversi, di opinione, di piazza, sul web), ma il M5S partecipa pressoché esclusivamente alle proprie iniziative, non cerca mai di promuoverne con altri “soggetti” anche quando ne condivide pienamente gli obiettivi.

 

Due soli esempi: a Bologna si è svolto un referendum in difesa della scuola pubblica, Davide contro Golia, trenta cittadini comuni contro tutti i poteri della città, dal vescovo Cl (cardinal Caffarra) al sindaco Pd alla Confindustria alle coop. I consiglieri comunali M5S stavano con il comitato laico, beninteso, ma nelle piazze e nella mobilitazione il M5S in quanto tale non si è visto. A Roma qualche settimana prima MicroMega ha organizzato a piazza Santi Apostoli una manifestazione per la ineleggibilità di Berlusconi, dopo aver raccolto 250 mila firme sul web. C’erano militanti del M5S, ma a titolo personale. Eppure quella sulla ineleggibilità è una battaglia del M5S. Perché non farla insieme? MicroMega la conduce dal 1994. Perché ogni tentativo di iniziative comuni ottiene un “fin de non recevoir” tanto silenzioso quanto eloquente? Gli esempi si potrebbero moltiplicare, con moltissimi altri “soggetti”, sigle, movimenti.

 

La scelta di votare Rodotà per la presidenza della Repubblica è stata un gesto esemplare, perché rovinarlo insolentendolo alla prima affermazione critica nei tuoi confronti? Cosa vogliamo, gli intellettuali organici, come nel vecchio Pci, o obbedienti “perinde ac cadaver” come nella Compagnia di Gesù?

 

Di cose da discutere, e da fare, insieme, ce ne sono moltissime, ma di queste in prossimi e specifici blog che mi impegno a mandare, nella speranza che ora la discussione e la partecipazione, che invochi nel tuo blog di oggi, possa cominciare davvero, e davvero secondo il principio che uno vale uno.

 

Un carissimo saluto,

 

Paolo Flores d’Arcais

 

Questo fa davvero ridere :testadura :

 

Un altro versante attualissimo emerge da un passo in cui Antigone spiega a Creonte che gli altri cittadini la pensano come lei: «Vedono anch’essi, ma è per te che temono e tacciono…».

«Ancora adesso siamo circondati dal conformismo della paura. Mentre Antigone rappresenta il parlar chiaro e l’agire in conformità del proprio parlare. Oggi in tanti mi dicono: ho le mie idee, ma le tengo per me. E invece le idee sono un bene pubblico. Senza idee nuove la politica è pura gestione e tecnica del potere».

Dunque la congiuntura politica attuale non aiuta la circolazione delle idee?

«Anche se affrontiamo temi specifici, come gli esodati o l’emergenza lavoro, dobbiamo capire che dobbiamo pensare a nuovi modi di vivere, nuove relazioni sociali. Purtroppo le larghe intese sono un congelamento: e la politica, congelata, muore».

da Antigone e i cittadini che “temono e tacciono”

 

130602_bologna_logo_x_libro-300x140.pngCostituzione, basta giocare col fuoco

Sono stati superati i confini della legalità e della decenza costituzionale. Adesso è l’ora di raccogliere attorno a un unico obiettivo tutte le forze, le associazioni, i movimenti che scelgono di opporsi allo scardinamento della repubblica parlamentare.

Attorno a personalità come Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Gaetano Azzariti, Carlo Smuraglia, attorno a associazioni come Libertà e Giustizia, i Comitati Dossetti, la Convenzione per la legalità costituzionale, Salviamo la costituzione, l’Anpi nazionale, i sindacati che hanno partecipato al 2 giugno a Bologna si sta organizzando una imponente mobilitazione, tale da costituire un importante punto di riferimento per il referendum che inevitabilmente si prospetta.

Un incontro organizzativo si terrà prima di luglio.

 

I punti critici e di forte allarme democratico sono almeno 3:

1) il metodo scelto dal governo e dalle forze politiche che lo sostengono che non rispetta l’articolo 138 della Costituzione;

2) Il semi presidenzialismo o il presidenzialismo che molti, anche fra i cosiddetti “saggi”, cercano di imporre;

3) la legge elettorale che non è considerata la priorità assoluta.

 

Durante l’incontro con le associazioni si comincerà a gettare le basi per il Comitato referendario.

Adesso basta. Si sta giocando col fuoco ma i cittadini italiani non dimenticano la loro storia e nel momento più grave della crisi economica si oppongono allo smantellamento della Costituzione nata dalla Resistenza.

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Non è cosa vostra

di Gustavo Zagrebelsky

 

Da anni, ormai, sotto la maschera della ricerca di efficienza si tenta di cambiare il senso della Costituzione: da strumento di democrazia a garanzia di oligarchie. Non dobbiamo perdere di vista questo, che è il punto essenziale. Non è in gioco solo una forma di governo che, per motivi tecnici, può piacere più di un'altra. L'uguaglianza, la giustizia sociale, la protezione dei deboli e di coloro che la crisi ha posto ai margini della società, la trasparenza del potere e la responsabilità dei governanti sono caratteri della democrazia, cioè del governo diffuso tra i molti. L'oligarchia è il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento, sempre gli stessi che si riproducono per connivenze e clientele. Parlando di oligarchie, non si deve pensare solo alla politica, ma al complesso d'interessi nazionali e internazionali, economico-finanziari e militari, che nella politica trovano la loro garanzia di perpetuità e i loro equilibri.

Ora, di fronte alle difficoltà di salvaguardare questi equilibri e alla volontà di rinnovamento che in molte recenti occasioni si è manifestata nella società italiana, è evidente la pulsione che si è impadronita di chi sta al vertice della politica: si vuole “razionalizzare” le istituzioni in senso oligarchico. Invece di aprirle alla democrazia, le si vuole chiudere o, almeno, congelare. L'incredibile decisione di confermare al suo posto il Presidente della Repubblica uscente è l'inequivoca rappresentazione d'un sistema di complicità che vuole sopravvivere senza cambiare. L'ancora più incredibile applauso, commosso e grato, che ha salutato quella rielezione – rielezione che a qualunque osservatore sarebbe dovuta apparire una disfatta – è la dimostrazione del sentimento di scampato pericolo. Ogni sistema di potere a rischio, o per incapacità di mediare le sue interne contraddizioni o per la pressione esterna da parte di chi ne è escluso, reagisce con l'istinto di sopravvivenza. Ma le riforme, in questo contesto, non possono essere altro che mosse ostili. Per questo, di fronte alla retorica riformista, noi diciamo: in queste condizioni, le vostre riforme non saranno che contro-riforme e il fossato che vi separa dalla democrazia si allargherà. Contro gli accordi che nascondono contro-riforme, noi, per parte nostra, useremo tutti gli strumenti per impedirle e chiediamo a coloro che siedono in Parlamento di prendere posizione con chiarezza e impegnativamente e di garantire comunque la possibilità per gli elettori di esprimersi con il referendum, se e quando fosse il momento.

Soprattutto, a chi si propone di cambiare la Costituzione si deve chiedere: qual è il mandato che vi autorizza? Il potere costituente non vi appartiene affatto. Siete stati eletti per stare sotto, non sopra la Costituzione. Se pretendete di stare sopra, mancate di legittimità, siete usurpatori. Se proprio non vogliamo usare parole grosse, diciamo che siete come la ranocchia che cerca di gonfiarsi per diventare bue. Non è la prima volta. È già accaduto. Ma ciò significa forse che ciò che è illegittimo sia perciò diventato legittimo?

Per questo, difenderemo la Costituzione come cosa di tutti e ci opporremo a coloro che la considerano cosa loro. La costituzione della democrazia è, per così dire, il vestito di tutta la società; non è l'armatura del potere di chi ne dispone. La mentalità dominante tra i tanti, finora velleitari, “costituenti” che si sono succeduti nel tempo nel nostro Paese, è stata questa: di fronte alle difficoltà incontrate e al discredito accumulato, invece di cambiare se stessi, mettere sotto accusa la Costituzione. La colpa è sua! Non sarà invece che la colpa è vostra o, meglio, della vostra concezione della politica e degli interessi che vi muovono?

Su un punto, poi, deve farsi chiarezza per evitare gli inganni. Chi vuol cambiare, normalmente, è un innovatore e le novità sono la linfa vitale della vita politica. Per questo, gli innovatori godono d'una posizione pregiudiziale di vantaggio. Ma, esiste anche un riformismo gattopardesco di segno contrario: si può voler cambiare le istituzioni per bloccare la vita politica e salvaguardare un sistema di potere in affanno. Allora, il movimentismo istituzionale equivale alla stasi politica. La stasi solo apparentemente è pace: è la quiete prima della tempesta.

Anche noi siamo per la pace; vediamo che il nostro Paese ha bisogno di pacificazione, pur se esitiamo a usare questa parola, corrotta ormai dall'abuso. Sappiamo però, anche, che la pace è esigente, molto esigente. Non può esistere senza condizioni. Dice la Saggezza Antica: “su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace”. E commenta così: in realtà sono una cosa sola, perché la giustizia si appoggia sulla verità e alla giustizia e alla verità segue la pace. La pace è la conseguenza della verità e della giustizia. Altrimenti, pacificare significa solo zittire chi vuole verità e giustizia, per nascondere segreti, inganni e ingiustizie e continuare come prima. Non è questa la pace di cui il nostro Paese ha bisogno.

Non siamo né i velleitari né i giacobini che ci dipingono. Non crediamo affatto al regno perfetto della Verità e della Giustizia sulla terra. Sappiamo bene che la politica non si fa con i paternoster e temiamo i fanatici della virtù rigeneratrice. Ma da qui a tutto accettar tacendo, il passo è troppo lungo. Siamo disposti alla pacificazione, ma a condizione che, nelle forme e con i mezzi della democrazia, si abbia come fine la ricerca della verità e la promozione della giustizia. Altrimenti, pacificazione è parola al vento. La pacificazione non è un sentimento o una predica, ma è una politica. È, dunque, una cosa molto concreta, difficile e impegnativa, perché non significa stare tutti insieme in un patto di connivenza. Significa combattere le zone oscure del potere, le sue illegalità, i suoi privilegi e le sue immunità; significa operare per la giustizia in favore del riequilibrio delle posizioni sociali, della riduzione delle disuguaglianze, dei diritti dei più deboli, di coloro che la crisi economica ha ridotto allo stremo, spingendoli ai margini della società. Solo questa è pacificazione operosa e veritiera.

Si dice che le “riforme istituzionali e costituzionali” hanno questo scopo. Ma, noi temiamo che, dietro alcune riforme “neutre”, semplificatrici e razionalizzatrici (numero dei parlamentari, province, bicameralismo), ve ne siano altre, pronte a saltar fuori quando se ne presenti l'occasione propizia, le quali con la pacificazione non hanno a che vedere. Piuttosto, hanno a che vedere con ciò che si denomina “normalizzazione”.

La procedura. Esiste, nella Costituzione (art. 138) una procedura prevista per la sua “revisione”. Ma oggi se ne immagina un'altra, farraginosa e facente capo a un'assemblea, chiamata “convenzione”. Si sta cercando la via per una spallata per la quale le procedure ordinarie, per la volontà impotente delle forze politiche, non sono sufficienti? Già il nome induce al dubbio che di ben altro che di una “revisione” si tratti. Le “convenzioni costituzionali” (a iniziare da quella di Filadelfia del 1787) possono essere convocate con limitati compiti riformatori, ma poi prendono la mano e pretendono di essere “costituenti”, cioè di scrivere nuove costituzioni. Il fatto poi che qualcuno abbia fatto riferimento a una “Commissione dei 75”, come la “Commissione per la Costituzione” che elaborò ex novo la vigente Costituzione del 1947, non fa che rafforzare questa supposizione, confermata dal fatto che ritorna il linguaggio e la mentalità della “grande riforma”. Par di capire che si voglia la riscrittura ex novo dell'architettura della politica. L'odierna procedura – da quel poco che si capisce e dal molto che non si capisce – è un miscuglio in cui sono messi insieme parlamentari ed “esperti”, scelti dai partiti, presumibilmente in proporzione alle forze che compongono il Parlamento. Il prodotto dovrebbe passare per le commissioni “affari costituzionali” e giungere alle Camere, separate o riunite (presumibilmente per superare l'ostilità del Senato), per concludersi con l'approvazione, non senza una concessione alla democrazia del web. Il voto finale dovrebbe essere un “prendere o lasciare” (su tutto il “pacchetto” o sulle singole parti, non si sa), senza possibilità di emendamento. Poiché un tale procedimento è totalmente estraneo alla Costituzione vigente, le è anzi contrario, s'immagina che poi, con una legge costituzionale si ratificherà l'accaduto. Non è nemmeno il caso di commentare in dettaglio questo pasticcio annunciato: la legge costituzionale di ratifica ex postnon è essa stessa la confessione che quel che intanto si fa è fuori della Costituzione? i “garanti della Costituzione” non hanno nulla da eccepire? la convenzione nascerebbe come proiezione di un parlamento eletto con una legge elettorale che, col premio di maggioranza, altera profondamente la rappresentanza, ma non s'è sempre detto che le assemblee con compiti costituenti devono essere “proporzionali”? gli “esperti”, scelti dai partiti, saranno dei “fidelizzati”? il loro compito non si ridurrà alla “copertura” delle posizioni di chi li ha scelti con quello scopo? come si esprimeranno: con una voce sola, che fa tacere i dissidenti, o con più voci? se le opinioni saranno diverse – come necessariamente dovrà essere se gli “esperti” saranno scelti senza preclusioni – che cosa aggiungerà il loro lavoro a un dibattito che, tra gli esperti, dura già da più di trent'anni? se saranno chiamati a votare, cioè a scegliere, non avremmo allora dei tecnici chiamati a esprimersi politicamente? in fine, come potrebbero i parlamentari degnamente accettare l'umiliazione del voto bloccato “sì-no” sulle proposte della Convenzione? Questi arzigogoli contraddittorii non sono forse il segno della confusione in cui si caccia la volontà, quando è impotente?

Il presidenzialismo. Nel merito della riforma, ancora una volta, dietro le quinte s'affaccia la volontà di presidenzialismo: “semi” o intero. L'argomento sul quale, da ultimo, si basano i presidenzialisti, è il seguente: i tempi della presidenza Napolitano hanno visto una trasformazione “di fatto” dell'ordinamento, in questo senso. Non è allora naturale che si costituzionalizzi, regolandolo, quanto è già avvenuto? A questo riguardo, però, occorre distinguere. Una cosa è l'espansione dell'azione presidenziale utile a preservare le istituzioni parlamentari previste dalla Costituzione, nel momento della loro difficoltà, in vista del ritorno alla normalità. Altra cosa è l'azione che prelude a trasformazioni per instaurare una diversa normalità. Queste contraddicono l'obbligo di fedeltà alla Costituzione che c'è, obbligo contratto da chi fa parte delle istituzioni. Aut, aut. Non sono rispettosi dei doveri costituzionali presidenziali, e del Presidente medesimo, i sostenitori dell'avvenuta trasformazione della “costituzione materiale”. Il “garante della Costituzione” agisce per preservarla o per trasformarla?

Noi temiamo che il presidenzialismo, quali che siano le sue formulazioni e i “modelli” di riferimento, nel nostro Paese non sarebbe una semplice variante della democrazia. Si risolverebbe in una misura non democratica, ma oligarchica. Sarebbe, anzi, la costituzionalizzazione, il coronamento della degenerazione oligarchica della nostra democrazia. Sarebbe la risposta controriformista alla domanda di partecipazione politica che si manifesta nella nostra società al tempo presente. L'investitura d'un uomo solo al potere, portatore e garante d'una costellazione d'interessi costituiti, non è precisamente l'idea di democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione, alla quale siamo fedeli.

Controlli. Il senso concreto del presidenzialismo che viene proposto in questa fase della nostra vita politica si chiarisce minacciosamente anche con riguardo ad altri due temi all'ordine del giorno dei riformatori costituzionali: l'autonomia della magistratura e la libertà dell'informazione. Ogni oligarchia ha bisogno di organizzare e gestire il potere in maniera nascosta, segreta. Ma la democrazia è il regime in cui il potere pubblico è esercitato in pubblico. La pubblicità delle opere dei governanti, è la condizione della loro responsabilità. Il potere non responsabile è autocratico, non democratico. Qual è il rimedio contro la chiusura del potere politico su se stesso? È la conoscenza veritiera dei fatti. E quali sono gli strumenti di tale conoscenza? Le indagini giudiziarie e le inchieste giornalistiche. Per nulla sorprendente è che chiunque si trovi ad esercitare un potere oligarchico sia ostile alla libertà delle une e delle altre, quando forse, invece, trovandosi all'opposizione, l'aveva difesa a spada tratta. Nulla di sorprendente: non sorprendente, ma certamente inquietante la concomitanza di proposte restrittive dell'azione giudiziaria e giornalistica con i progetti di riforma del sistema di governo. Chi ha a cuore la democrazia non può ragionare secondo la logica contingente della convenienza, ma deve difendere la libertà della pubblica opinione, indipendentemente dal fatto che questa libertà possa giovare o nuocere a questa o quella parte, a questi o quegl'interessi.

La legge elettorale. La riforma della legge vigente è riconosciuta come emergenza democratica, da tutti e non da oggi. Dopo che la Corte costituzionale, con l'improvvida sentenza che aveva dichiarato inammissibile il referendum che avrebbe ripristinato la legge precedente (soluzione realisticamente prospettata, fin dall'inizio, da Libertà e Giustizia), tutti dissero in coro: riforma elettorale, fatta subito con legge. Si è visto. Anche oggi si ripete la stessa cosa, ma con quali prospettive? Esiste una convergenza di vedute in Parlamento? È difficile crederlo e già emergono le resistenze. I due maggiori aspetti critici della legge attuale, dal punto di vista della democrazia, sono l'abnorme premio di maggioranza e le liste bloccate. Ma il premio di maggioranza farà gola ai due raggruppamenti maggiori che, sondaggi alla mano, possono sperare di avvalersene. Le liste bloccate (i parlamentari “nominati'') sono nell'interesse delle oligarchie di partito e degli stessi membri attuali del Parlamento, che possono contare sulla ricandidatura facile, tanto più in mancanza d'una legge sulla democrazia nei partiti, anch'essa sempre invocata (subito la legge!) quando scoppia qualche scandalo. Dal punto di vista della funzionalità o governabilità del sistema, occorre poi eliminare il diverso metodo di attribuzione del premio di maggioranza nelle due Camere, ciò che ha determinato la vittoria di un partito nell'una, e la sua sconfitta nell'altra. Il ritorno al voto con questa incongruenza sarebbe come correre verso il disastro, verso il suicidio della politica. Ma anche a questo proposito, non si può essere affatto sicuri che calcoli interessati, questa volta non a vincere ma a impedire ad altri di vincere, non abbiano alla fine la meglio. Il Capo dello Stato ha minacciato le sue dimissioni, ove a una riforma non si addivenga. Altri immaginano una riforma imposta dal Governo con decreto-legge. Sono ipotesi realistiche? Possiamo davvero immaginare che un Presidente della Repubblica, che porti le responsabilità inerenti alla sua carica, al momento decisivo sarebbe pronto a sottrarvisi, precipitando nel caos? Quanto al Governo, possiamo credere ch'esso possa agire facendo tacere al suo interno le divisioni esistenti tra le forze parlamentari che lo sostengono, le quali sarebbero comunque chiamate a convertire in legge il decreto (senza contare – ma chi presta più attenzione a questi dettagli? – che la decretazione d'urgenza è vietata in materia elettorale).

E allora? C'è da arrendersi a questa condizione crepuscolare della democrazia? Al contrario. C'è invece da convocare tutte le energie disponibili, dovunque esse si possano trovare, proprio come abbiamo cercato di fare con questa pubblica manifestazione. Per raccogliere in un impegno e in un movimento comune la difesa e la promozione della democrazia costituzionale che, per tanti segni, ci pare pericolare. Dobbiamo crescere fino a costituire una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto, da parte di chi cerca il consenso e chiede il nostro voto per entrare nelle istituzioni. Per questo dobbiamo riuscire a spiegare ai molti che la questione democratica è fondamentale; che non possiamo rassegnarci. Essa riguarda non problemi di fredda ingegneria costituzionale da lasciare agli esperti, ma la possibilità, da tenere ben stretta nelle nostre mani, di lavorare e cercare insieme le risposte ai problemi della nostra vita. Domandare pace, lavoro, uguaglianza e giustizia sociale, diritti individuali e collettivi, cultura, ambiente, salute, legalità, verità e trasparenza del potere, significa porre una domanda di democrazia. Non che la democrazia assicuri, di per sé, tutto questo. Ma almeno consente che non si perda di vista la libertà e la giustizia nella società e che non ci si consegni inermi alla prepotenza dei più forti.

 

http://www.libertaegiustizia.it/2013/06/11/le-book-della-costituzione/

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:ahahah

Ma davvero il Pd si è astenuto su quella mozione? Ma stiamo scherzando?

 

 

 

Che dire..finchè c'è il Pd c'è roberto-speranza.jpg (di ridere per non piangere)

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Espellere la Gambaro è stato un delirio. Indifendibile. Ma questo può scriverlo un cittadino, un giornalista. Chiunque sia intellettualmente onesto (ma giusto un minimo: non è difficile). Non può dirlo, e scriverlo, il Pd, che ne caccia tanti ogni giorno, da Agropoli a Troina ad Avigliana, per motivi peraltro esilissimi. Non può dirlo e scriverlo il Pdl, già Forza Italia, che ha fatto due congressi (finti) in vent'anni. Non può dirlo Scelta Civica, che non esiste, o la Lega, che espelle di continuo. E anche i comunisti, di grazia, proprio non possono dare lezioni sul dissenso interno. Chi pretende di rimbrottare i novizi, perfettibili e fallibili come tutti, si ricordi che ha sin qui contribuito a uno sfacelo come minimo ventennale. Al giochino del "Visto? Loro sono stalinisti e dunque noi innocenti" possono credere altri. Io no. Ecco l'errore sommo di Grillo: quando gli scende la catena (cit), regala assist clamorosi a chi ha spolpato questo Paese. E non aspetta altro che dare la colpa ai diversi, agli infedeli: ai nuovi arrivati.

 

Andrea Scanzi oggi su Facebook.

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Al gran mercato delle riforme

di Piero Ignazi

Tra sistema di governo e legge elettorale non c'è alcun collegamento.Il centrodestra cerca di far passare questa stramba teoria perché è diviso al suo interno. Sarebbe meglio occuparsi dei contrappesi per il presidenzialismo

 

Dopo l'ulteriore rimprovero del presidente Giorgio Napolitano di «aver pestato per mesi acqua nel mortaio», una riforma delle istituzioni verrà. Però le premesse non sono incoraggianti. Prendiamo il caso del rapporto tra sistema di governo e sistema elettorale. Solo in un dibattito politico dominato da una cultura giuridico-formale in cui gli scienziati politici non trovano posto (ed è vergognoso che nella commissione governativa dei 35 vi siano appena due politologi e non sia stato nemmeno invitato un maestro come Giovanni Sartori, autore di fondamentali saggi anche sull'architettura istituzionale delle democrazie) può farsi largo la bizzarra idea che ci sia un collegamento necessario tra norme elettorali e tipo di regime.

 

I sistemi elettorali sono , solo e soltanto, meccanismi di trasformazione di voti in seggi. Ce ne sono di mille tipi, anche se si dividono in due grandi famiglie: proporzionale, che privilegia la rappresentanza di tutte le opinioni presenti in una società, e maggioritaria, che distorce in qualche misura la rappresentanza ma, premiando i partiti maggiori, "dovrebbe" favorire la governabilità. Ora, mentre è chiaro l'effetto di potenziale frammentazione con un sistema proporzionale, non è affatto garantito l'effetto di maggiore "governabilità" con il maggioritario: i tormenti del governo di David Cameron in Gran Bretagna, patria del maggioritario, sono lì a dimostrarlo.

 

Il sistema elettorale che più di tutti contempera le due esigenze è il maggioritario a doppio turno perché, da un lato, pur riducendo la frammentazione, consente la presenza in parlamento di partiti non estremisti (e così, emarginando le estreme, rafforza il sistema democratico) e, dall'altro, fornisce grande legittimità all'eletto che, proprio grazie al secondo turno, alla fine conquista spesso il consenso di più della metà dei votanti. Quindi, con il doppio turno si ottiene: riduzione della frammentazione ma mantenimento della rappresentatività della società, marginalizzazione delle estreme e moderazione delle forze maggiori, pressione alla formazione di coalizioni stabili, alta legittimazione degli eletti e rapporto diretto con le loro basi elettorali. I benefici di questo sistema sono indubbi eppure il Pdl non lo vuole. Perché l'esperienza dice che il suo elettorato si perde per strada quando deve scegliere un candidato piuttosto che seguire la sirena berlusconiana.

 

Evidentemente tra le diverse componenti del centro-destra non è mai circolato buon sangue e, piuttosto che sostenere un candidato diverso dal proprio beniamino, gli altri elettori andavano al mare. E' sulla base di questa considerazione tattica e utilitaristica che il Pdl chiede di avere in cambio del doppio turno il presidenzialismo (in qualunque salsa condito). Con quest'ottica da mercato delle vacche non si va lontano. E infatti i soloni del centro-destra tentano di argomentare l'esistenza di un rapporto necessitato tra sistema elettorale e forma di governo e cioè che al doppio turno debba corrispondere il (semi)presidenzialismo. Semmai c'è da chiedersi se oggi in Italia sia possibile introdurre un regime presidenzialistico. In realtà tutti, persino il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello (voce dal sen fuggita?), ritengono che non si possa introdurre un tale sistema se prima non si fa una legge seria sul conflitto di interessi. Giusto. Ma se un leader politico influente come Daniela Santanchè si appresta, nel silenzio generale, a integrare alla sua società di concessionaria di pubblicità anche l'acquisto di alcuni periodici della Rcs, vuol dire che non c'è alcuna convinzione che il potere politico non possa concentrare nelle sue mani anche quello economico e quello mediatico.

 

La cultura politico-istituzionale italiana è ancora molto distratta verso questi aspetti. Non ha assorbito la lezione del costituzionalismo anglosassone dei pesi e contrappesi. Il mortaio di Napolitano ha molti ingredienti da pestare, ma che ci siano quelli giusti e nelle dosi corrette.

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Poi dici che uno si butta su Grillo…

di Salvatore Cannavò | http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/21/poi-dici-che-si-butta-su-grillo/633363/

 

Non ho votato il Movimento 5 Stelle (non ho proprio votato). Non credo che lo farò. Almeno fino a quando durerà questa fase roboante e confusa, figlia dei tempi e della natura di quel movimento. Fino a quando assisteremo all’esuberanza leaderistica del suo fondatore. Fino a quando quel movimento resterà soprattutto l’espressione del risentimento contro la politica piuttosto che il motore di una nuova politica. Non l’ho votato perché continuo a pensare che la chiave di volta della realtà sia ancora l’ineguaglianza e l’ingiustizia sociale, che l’obiettivo sia eliminare la faglia sempre più ampia tra chi vive di profitto e chi invece di salari, e spesso nemmeno di quelli. Lo scarto indegno tra la stragrande maggioranza della popolazione, il 99%, che ha poco o niente e una ristretta minoranza che controlla risorse, capitali, governi.

 

Detto questo, però, non si può non provare fastidio per il modo in cui buona parte della sinistra, politica e giornalistica, prova a fare le pulci a quel movimento e al suo leader. Andatevi a leggere le dichiarazioni di quegli stessi dirigenti che espellevano i dissidenti anti-guerra, durante il governo Prodi. Allora non ci misero un fiato a decretare l’incompatibilità con i propri partiti di coloro che non se la sentivano di avallare le missioni militari. Oggi è tutto un solidarizzare con la sconosciuta Adele Gambaro che sembra avere, come unico pregio, una cazzuta dichiarazione contro il proprio leader. Senza contare le decine di espulsioni decretate dal Pd, dalla Lega, dagli altri partiti di cui non si sa nulla, di cui non si è mai parlato.

 

Fa bene, allora, Grillo a espellere? Certamente, no. Anche se la domanda andrebbe posta a quelle migliaia di persone che hanno deciso di seguirlo online. Ma anche su questa procedura si ragiona a tentoni. Il meccanismo, poco invidiabile, è in realtà quello di una consultazione di “partito” tra i propri iscritti. 19.790 hanno partecipato, il 65,8% (pari a 13.029 voti) ha votato per l’espulsione, il restante 34,2% (pari a 6.761 voti) ha votato contro. Le espulsioni qualificano chi le compie, a meno di non apprezzare il Lenin del “Che fare”secondo il quale “le epurazioni rafforzano il partito” (e non va escluso che a Grillo questa linea vada bene). In ogni caso, il movimento si è mosso con le procedure che tutti conosciamo, criticabili ma note. Lo ha fatto in ‘adorazione del capo?’. Pare di sì, Grillo ha ancora una forte presa nel suo movimento. Ma non ci risulta che nel caso di altre espulsioni siano stati chiamati gli iscritti a decidere.

 

Eppure, il dito è puntato tutto contro ‘la scarsa democrazia’ di Grillo e dei grillini. Come se gli altri partiti potessero esibire chissà quali quarti di nobiltà. La politica, in realtà, è tutta in apnea, inadeguata alla fase, con pochi spiragli all’orizzonte. Troppo comodo provare a salvarsi scaricandone il peso sui 5 Stelle.

 

Il bello è che le accuse provengono soprattutto da sinistra. E’ chiaro che in questo campo si spera di poter lucrare qualcosa da quella crisi che è evidente ed imputabile agli errori dello stesso movimento. Il 22 giugno, ad esempio, Antonio Ingroia rilancia la sua “Azione civile” con l’obiettivo di incunearsi in quella difficoltà. Una parte di Sel ha lo stesso obiettivo. Ed è chiaro che anche Stefano Rodotà abbia deciso di utilizzare la ritrovata notorietà offertagli da Grillo per provare a coagulare un’area alternativa. Da qui lo scontro con l’ex comico.

 

Quello che non convince, e che motiva il titolo, ovviamente provocatorio, di questo articolo, è che le critiche restano tutte superficiali. Emotive quando va bene, pretestuose nei casi peggiori. E non si coglie, o non si vuole farlo, il livello di complessità della crisi in corso.

 

Le istanze che hanno portato oltre 8 milioni di persone a votare 5 Stelle, infatti, restano ancora intatte, anzi sono state avvalorate dall’esito della crisi politico-istituzionale che ha seguito il voto e ha trovato il suo apice nella comica elezione per il Quirinale. Lo scorso febbraio, nelle urne, è stato chiesto alla politica istituzionale di mettersi all’altezza del ‘popolo’, di scendere dal piedistallo, a partire da prebende e privilegi. Sono state chieste misure contro la crisi per far respirare chi ne è stato colpito violentemente; è stata chiesta una riforma generale della democrazia con regole in grado di far contare di più coloro che non decidono mai. E’ questo ad aver motivato il successo grillino. Richieste neanche troppo radicali, democratiche e spesso di buon senso. Ma a quelle domande è stato risposto, nell’ordine: eleggendo per la seconda volta una Presidente della Repubblica quasi novantenne, baluardo del sistema politico contestato; realizzando un governo innaturale, delle larghe intese che è servito a riabilitare il Caimano; riproducendo fedelmente le politiche rigoriste dettate dalla Troika. Poi dice che uno…

 

In secondo luogo, non esiste un movimento politico in grado di gestire, in poche settimane, un successo inaspettato ed enorme come quello che si è verificato il 25 e 26 febbraio. Grillo si era preparato a un risultato stimato attorno al 15%. Aveva fiutato qualcosa di nuovo nelle ultime battute della campagna elettorale. Ma il 25%, un risultato possibile, nella storia repubblicana, solo per i due grandi partiti (Dc-Pci e i loro eredi), è stato decisamente troppo. L’unico ad aver ottenuto nel giro di pochi mesi un risultato analogo è il Silvio Berlusconi del 1994. Ma Berlusconi aveva dietro un impero finanziario, giornali, manager, uomini di mercato e anche qualcosa di inconfessabile. Aveva un mare di soldi e con quella forza ha messo in piedi, di imperio, un partito. Grillo ha solo un numero imprecisato di volontari, un mare di deputati e senatori ancora increduli di trovarsi lì, un programma limitato, in grado cioè di contrastare l’esistente ma non di fondare, davvero, un’alternativa. Qualcuno sostiene che è ricco e ha dietro Casaleggio. Ma stiamo parlando di briciole in confronto a Berlusconi. E non va dimenticato che parliamo dell’unico movimento che ha rinunciato a 42 milioni (quarantaduemilioni) di euro di rimborsi ai partiti.

 

Un partito, un movimento politico, un programma, non si improvvisano, per quanto i Cinque stelle siano in campo da diversi anni. Servono prove, scontri, lotte, contraddizioni. La strada è lunga. L’evoluzione dei Cinque stelle non è oggi prevedibile. Potrebbe diventare una ridotta anti-sistema, autocentrata e tendente al populismo, oppure trasformarsi in un movimento democratico-radicale capace anche di offrirsi a ipotesi di governo. Una traiettoria seguita, ad esempio, dai Gruenen in Germania. Difficile che possa mantenere ancora a lungo il profilo incerto e ambivalente che conserva oggi e continuare a fare politica senza dotarsi di un “gruppo dirigente”, nazionale e locale, di decisioni prese in modo collettivo, di un programma generale e non solo di un elenco di punti.

 

Non sta a noi dare consigli ma il dibattito andrebbe portato su questo piano. Del resto, quando le critiche sono state mosse a partire da istanze di democrazia diretta e su contenuti forti, come a Messina, le cose sono andate diversamente. Quello che non funziona è provare a lucrare vantaggi politici dall’erosione di quel movimento e dalla sua crisi senza farsi carico delle dinamiche che ne hanno permesso l’esistenza. Che trovano origine tutte dentro la crisi politica, economica e istituzionale dell’Italia, e dell’Europa, nelle sue devastazioni, nei suoi fallimenti. Soprattutto quelli dell’intera sinistra, moderata e radicale. L’ultima in grado di dare lezioni.

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Presidenzialismo? Rischiamo derive da terzo mondo

Silvia Truzzi

 

Capita talvolta che i ruoli s’invertano. “Lei sa che significa la parola parresia?”, domanda l’intervistato. “Attitudine a dire la verità. Perché me lo chiede?”. Gustavo Zagrebelsky esita nel rispondere : “Perché questa virtù – parlar chiaro e libero, e agire di conseguenza – mi pare oggi alquanto sbiadita. Il contrario è ipocrisia : negarsi al dovere di dire la verità o dire una cosa per volerne un’altra”.

Esempi, professore?

Stiamo parlando di riforme costituzionali: i discorsi in privato contraddicono quelli in pubblico. Oppure, ci si convince del contrario di quel che si è sempre pensato. Opportunismo o spirito d’omologazione.

Diceva anche : dire una cosa per intenderne un’altra.

Pensi alle “riforme”. Viviamo in tempi d’inceppamento. C’è un sistema di potere che non vuole o non riesce a rinnovarsi. Perciò si cristallizza. Le “larghe intese”, la rielezione della stessa persona a capo dello Stato: non sono due clamorose dimostrazioni di paralisi politica? Qui, nella stasi, s’innestano le riforme e la loro retorica. Ma riforme per cosa? Per aprire, rinnovare, vivificare oppure per afferrare più saldamente il potere, stringendolo nelle mani di sempre, per garantire perduranza d’interessi e pratiche consociative? In una parola: riformare per non cambiare. Mi riferisco agli strateghi del presidenzialismo.

Perché il presidenzialismo sarebbe strumento di conservazione?

Il presidenzialismo, nelle sue varianti, più di qualsiasi altro sistema cambia d’aspetto a seconda delle società ove opera. È camaleontico. Pensi al semi-presidenzialismo francese e alle sue imitazioni africane. Sono la stessa cosa? No. Gli “ingegneri costituzionali” si occupano di formule, ma i costituzionalisti sanno che le costituzioni sono fatte, sì, di formule, ma anche di storia, cultura, abitudini, vizi e virtù. Quale ignoranza nel pensare che la riforma della costituzione sia una questione di modelli astratti d’importazione !

Ha paura che veleggiamo verso il Ruanda più che verso la Francia?

Non facciamo terrorismo costituzionale. Tuttavia, saremmo ciechi se non ci preoccupassimo di alcuni fattori condizionanti. Il primo è la corruzione. Dove la corruzione è diffusa, i presidenzialismi sono non solo essi stessi corrotti, ma ne diventano garanzia. Il secondo è la cultura politica che, in nome della storia, delle libertà, delle tradizioni repubblicane, eccetera, trattiene dall’abuso del potere. Il terzo è la coesione sociale. Dove la convivenza è minacciata dalle disuguaglianze, dalla mancanza di lavoro, dall’abbandono a se stessi di cittadini più deboli, è forte la tentazione di cercare la pace sociale non nella partecipazione democratica, ma nelle misure energiche d’ordine pubblico. Da noi? Come stiamo a corruzione? A incultura politica? A ciò che, pudicamente, si chiama disagio sociale? Chiederei: che ne è del conflitto d’interessi? Credete che si possa pensare a un’elezione diretta del capo del governo senza avere sciolto il nodo che lega politica, economia, informazione?

Teme per la democrazia?

Nelle attuali condizioni sì. Di fronte alle difficoltà, non c’è il rischio che si dica: pensaci tu al posto nostro; fagliela vedere tu a questi queruli e fastidiosi postulanti che chiedono diritti e disturbano la (nostra) pace sociale? Quella massa di elettori mancati, quando si muoveranno, dove andranno a parare?

Il sistema parlamentare non è a sua volta in crisi?

Certamente ! Ma, mi pare che la via per uscirne sia rinnovare la politica, cambiare dall’interno i partiti, non temere l’irruzione delle novità, ma assecondarle e costituzionalizzarle, come avviene nelle democrazie non assediate dalla paura del nuovo. Prima, il rinnovamento della politica; poi, eventualmente, la riforma della forma di governo.

Sulle “ forme delle riforme” regna una grande confusione. Non si capisce bene quale ruolo abbia la commissione degli esperti e quale il governo. Che c’entra il governo con un percorso che dovrebbe essere parlamentare?

Si vuol seguire una procedura farraginosa, molto più complicata dell’articolo 138. In più, questa farraginosa procedura presuppone una legge costituzionale che la codifichi, da approvarsi con le procedure oggi vigenti. Chi guardasse dall’esterno, penserebbe che si vuole complicare per non fare nulla. Invece, la verità è che, con questo procedimento, non si esautora il Parlamento, ma lo si mette alle corde. Ricorda il discorso del presidente della Repubblica, al momento della sua rielezione? Si è trattato d’un atto d’accusa contro le Camere inconcludenti, che i parlamentari hanno incassato senza battere ciglio. Così, sullo svolgimento della nuova procedura vigilerà il governo, con l’aiuto dei suoi consulenti, sotto l’egida del capo dello Stato e secondo un “ cronoprogramma ” che dovrebbe garantirne la conclusione entro 18 mesi. Dove sia questa garanzia, però, nessuno lo sa. I Parlamenti, per definizione, sono padroni dei propri tempi e lavori : ci mancherebbe che non fosse così ! Per ora, si sa solo che i 18 mesi suonano piuttosto come garanzia di durata del governo. E non vorremmo credere che la garanzia stia nella minaccia di dimissioni del presidente della Repubblica, dimissioni che, come sanno i costituzionalisti, non sono affatto nella sua disponibilità secondo valutazioni politiche e che precipiterebbero la situazione nel caos.

C’è una riforma necessaria e urgente?

Sì, lo si è detto infinite volte: la riforma della legge elettorale. Non sto a ripetere le ragioni. Faccio solo osservare che, per riconoscimento unanime, quella attuale è giudicata incostituzionale. Dunque, per quanto si voglia voltare lo sguardo dall’altra parte, noi abbiamo – unici nel mondo delle democrazie – un Parlamento carente di legalità costituzionale. Se poi consideriamo che la formula del governo di larghe intese – necessitata o non: non è questo il punto – non ha alcun rapporto, anzi è in contrasto, con la volontà degli elettori e con il risultato elettorale, allora al deficit di legalità si aggiunge un altrettanto, anzi più, grave deficit di legittimità. E, in queste condizioni, si pensa di dare al nostro Paese una nuova costituzione? Non è ybris, presunzione?

Sulle riforme gravano poi le incognite legate ai processi Berlusconi. Che opinione s’è fatto della decisione della Consulta sul legittimo impedimento nel processo Mediaset?

Da quel che si sa, mi pare che la Corte abbia fatto applicazione rigorosa dei suoi precedenti. Chi parla di contraddizione, dovrebbe avere cura di studiare un poco e non falsificare i dati. Il punto è la cosiddetta “ leale collaborazione ” tra governo e autorità giudiziaria. La leale collaborazione non significa affatto autorizzazione a una delle parti perché possa boicottare l’attività dell’altra. Significa che entrambe devono cooperare per un fine comune, il corretto esercizio di funzioni che hanno la medesima dignità costituzionale. La Corte ha ritenuto che da parte dell’allora presidente del Consiglio vi sia stato proprio questo boicottaggio dell’attività giudiziaria. Non c’è nulla d’aggiungere.

 

Vedera anche: Il porcellum bloccato

Gianluigi Pellegrino

http://www.libertaegiustizia.it/2013/06/21/il-porcellum-bloccato/

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Ci sono ancora due gradi di giudizio e sono sicuro che anche stavolta, in un modo o nell'altro, la farà franca.

 

Se non altro però si è creata una breccia nella sua tanto amata immagine, che ne esce almeno un po' rovinata.

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