Jump to content
Search In
  • More options...
Find results that contain...
Find results in...

Recommended Posts

Interessante, la puntata di Porta a Porta era registrata,chissà chi è l'uccellino cha ha avvertito il Berlusca che la Bindy diceva cose che lo mettevano in difficoltà, a meno che, oltre che il miglior presidente del consiglio ogniepoca e l'uomo più perseguitato dai tempi di Caino, sia anche dotato di poteri paranormali tali da conoscere cosa viene detto senza poter nè vedere nè sentire chi sta parlando

 

 

 

per uscire un attimo dalle miserie di casa nostra

 

"Non ho ancora capito che cosa ha fatto Obama". Cosi' il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini, oggi, a Torino, per inaugurare la nuova sede regionale del partito, commenta l'assegnazione del Nobel per la pace al Presidente degli Stati Uniti. "Speriamo - aggiunge - che faccia in futuro tutte le cose splendide che il Nobel auspica".

 

 

+1

Link to post
Share on other sites
  • Replies 14.3k
  • Created
  • Last Reply

Top Posters In This Topic

  • Valiero24

    1730

  • keitaro

    1679

  • COOPapERino21

    950

Top Posters In This Topic

Popular Posts

A me Berlusconi non piace, ma un minimo di persecuzione mi sa che c'è davvero... Se continuano così lo voto. Giuro.   Va bene che è un politico poco risolutivo e che non ha fatto tutto quello che g

Allora mettiamo qualche puntino sulle i perché sinceramente mi sono rotto di assistere a continui ribaltamenti della realtà.   La discussione è partita as usual tra me e Keitaro. Io dicevo di esse

Abbiamo smacchiato il giaguaro :D

Posted Images

Beh comunque come diceva qualche post addietro Magic Luke, è inutile aspettare che ci sia un'opposizione seria, l'esempio citato da lui è solo l'ultimo di tanti exploit.

 

L'unico in cui si può sperare è Fini, che ha a più riprese dimostrato di avere serietà e dignità, e per dirlo io vuol dire che veramente siamo alla frutta.

 

 

yes yes yes

 

Siamo alla frutta Alex.Anch'io oggi pensavo la stessa cosa,meglio Fini di chiunque altro.Ma non mi vergogno,sono gli esponenti della sinistra che dovrebbero vergognarsi

Link to post
Share on other sites
Guest Lehman Brothers

Quelle apparse su giornali italiani e su certa stampa straniera in queste settimane, ha detto Berlusconi, sono "accuse che sputtanano non solo il presidente del Consiglio, ma la democrazia e il nostro Paese, oltre che i nostri prodotti, che invece devono avere un'immagine dell'Italia che deve essere bella forte e pura e non inquinata da tutto ciò che si dice sui giornali in queste settimane".

 

 

 

intoccabile.jpg?w=450&h=336

Link to post
Share on other sites
Quelle apparse su giornali italiani e su certa stampa straniera in queste settimane, ha detto Berlusconi, sono "accuse che sputtanano non solo il presidente del Consiglio, ma la democrazia e il nostro Paese, oltre che i nostri prodotti, che invece devono avere un'immagine dell'Italia che deve essere bella forte e pura e non inquinata da tutto ciò che si dice sui giornali in queste settimane".

 

 

 

intoccabile.jpg?w=450&h=336

 

Grandissimo... film... :asd

 

...nonostante e a dispetto del falso e tordesigliesco scrittore che si arrischiò o si arrischierà a scrivere con grossolana e spuntata penna di struzzo le imprese del mio valoroso cavaliere, perché non è peso per le sue spalle, né tema per il suo costipato ingegno... che per farsi beffa di tutte quelle che fecero quei cavalieri erranti, son sufficienti le due che fece lui, con tanto spasso e consenso delle genti che ne hanno avuto notizia sia in questi che negli stranieri regni. E con ciò terrai fede alla tua cristiana professione, consigliando bene chi ti vuol male, e io resterò soddisfatto e fiero d'essere stato il primo a godere per intiero i frutti dei suoi scritti, come volevo, che altro non è stato il mio intento che quello di far odiare dagli uomini le bugiarde e assurde storie dei libri di cavalleria, che ad opera di quelle del mio autentico don Chisciotte van barcollando, e finiranno per cadere del tutto, senza alcun dubbio.

Link to post
Share on other sites

questo topic sta diventando la perla del forum...allora in italia c'è qualcuno che usa il cervello

 

caro il mio silvio berlusconi, ora ti rimangono 3 cose da fare per starmi simpatico:

 

1)vendere il milan

2)dimetterti dalla presidenza del consiglio

3)suicidarti

Link to post
Share on other sites

Cerchiamo di fare un pò di sana informazione..iniziando dalla strage di Capaci..per chi ha voglia e tempo,scusate ma non ho trovato il link,lo posto per intero perchè merita.La gente deve sapere :asd

 

 

N. 1370/98 R.G.N.R.

N. 908/99 R.G.I.P.

T R I B U N A L E D I C A L T A N I S S E T T A

UFFICIO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

DECRETO DI ARCHIVIAZIONE

(artt.409 e 411 c.p.p.)

Il Giudice, dott. Giovanbattista Tona, nel procedimento nei confronti di:

• BERLUSCONI Silvio, nato a Milano il 29 settembre 1936;

• DELL’UTRI Marcello, nato a Palermo l’1 settembre 1941;

in relazione al reato di cui agli artt.110-422 c.p., 7 d.l. 13 maggio 1991,

n.152 (conv. in l. n.203/91) (c.d. aggravante della finalità mafiosa), 1 d.l.

15 dicembre 1979 n.625 (conv. in l.n.15/80) (c.d. aggravante della finalità

di terrorismo).

OSSERVA

1. Origine del presente procedimento

Il presente procedimento è stato avviato sulla base delle risultanze

investigative emerse in altre indagini contro ignoti relative agli attentati nei

quali sono stati uccisi i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo,

Paolo Borsellino e i rispettivi uomini delle loro scorte.

In particolare in data 22/7/1998, il Procuratore della Repubblica di

Caltanissetta disponeva con articolato provvedimento l’iscrizione nel

registro degli indagati di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in base ad

una serie di risultanze che delineavano una notizia di reato a loro carico,

quali mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

I dati che hanno legittimato tale decisione del Procuratore in sede sono

2

richiamati nello stesso provvedimento di iscrizione e si ricavano dai

verbali di interrogatorio del collaboratore Salvatore Cancemi inerenti a

“persone importanti” che avrebbero concorso a decidere l’eliminazione

fisica di Falcone e Borsellino in maniera eclatante nell’ambito di una più

articolata “strategia terroristica” di “cosa nostra”, nonché nei verbali

relativi ai rapporti gestiti da Vittorio Mangano, prima, e da Salvatore

Riina, poi, con i vertici del circuito societario Fininvest.

Ma oltre ad essi – ad avviso del P.M. – conducevano verso l’ipotesi

investigativa di un coinvolgimento di Berlusconi e Dell’Utri anche le

dichiarazioni di Tullio Cannella e di Gioacchino La Barbera in relazione a

contatti di “cosa nostra” con imprenditori del nord e ad un interessamento

della stessa organizzazione per l’installazione di un ripetitore per

l’emittente Canale 5; le dichiarazioni di Gioacchino Pennino ed Angelo

Siino sui personaggi che avevano avuto interesse ad eliminare i due

magistrati, oramai assai attenti a delineare i rapporti tra mafia ed

imprenditoria; ed infine gli esiti delle investigazioni svolte dalla DIA e dal

Gruppo “Falcone e Borsellino” che avevano aperto prospettive di

approfondimento in ordine ai rapporti di Berlusconi e dell’Utri con

l’organizzazione “cosa nostra”.

Il P.M. quindi formava un nuovo fascicolo ed iscriveva gli odierni

indagati, per ragioni di segretezza, con le sigle “alfa” e “beta”.

Già la Procura della Repubblica di Firenze aveva disposto l’iscrizione di

Berlusconi e Dell’Utri, sotto le sigle “Autore 1” e “Autore 2”, in un

procedimento relativo a fatti di strage commessi a Roma, Firenze e Milano

dal maggio 1993 all’aprile 1994, considerati rientranti in un unico disegno

che avrebbe previsto una “campagna stragista continentale avente come

obiettivo strategico (anche) quello di ottenere una revisione normativa che

invertisse la tendenza delle scelte dello Stato in tema di contrasto della

criminalità mafiosa” (cfr. richiesta di proroga dei termini delle indagini

formulata dal P.M. fiorentino in data 22/7/1997), ed in particolare:

- la strage di via Fauro a Roma (attentato a Maurizio Costanzo) il

14/5/1993;

- la strage di via de’ Georgofili di Firenze (attentato agli Uffizi) il

27/5/1993;

- la strage di via Palestro a Milano (attentato al Padiglione di Arte

Contemporanea) il 27/7/1993;

- le stragi di san Giorgio al Velabro e di San Giovanni in Laterano a

Roma il 28/7/1993;

- la strage dello stadio Olimpico di Roma tra gli ultimi del 1993 ed i

3

primi del 1994;

- la strage di Formello-Roma (attentato a Salvatore Contorno) il

14/4/1994.

Nel corso di quelle indagini erano stati acquisiti diversi elementi che

avvaloravano l’ipotesi di un’unitaria strategia dell’organizzazione mafiosa

finalizzata a condizionare le scelte di politica criminale dello Stato e a

ricercare nuovi interlocutori da appoggiare nelle competizioni elettorali.

Va ricordato che il P.M. di Firenze in data 7/8/1998 aveva chiesto al GIP

territoriale l’archiviazione del procedimento, concludendo, a seguito di

complesse indagini, che non erano stati acquisiti elementi certi in ordine al

fatto che l’interlocutore politico di “cosa nostra” in quel periodo avesse

partecipato all’“accordo”, intervenuto all’interno dell’organizzazione, al

fine di attuare la grave offensiva militare degli anni 1992-1994.

Il GIP di Firenze ha accolto la richiesta con provvedimento in data

14/11/1998, rilevando che “le indagini svolte hanno consentito

l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere cosa nostra

agito a seguito di inputs esterni, a conferma di quanto già valutato sul

piano strettamente logico; all’avere i soggetti (cioè gli odierni indagati,

n.d.r.) di cui si tratta intrattenuto rapporti non meramente episodici con i

soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato,

all’essere tali rapporti compatibili con il fine perseguito dal progetto”.

Concludeva tuttavia che, sebbene “l’ipotesi iniziale abbia mantenuto e

semmai incrementato la sua plausibilità”, gli inquirenti non avevano

“potuto trovare – nel termine massimo di durata delle indagini preliminari

– la conferma delle chiamate de relato e delle intuizioni logiche basate

sulle suddette omogeneità”.

Mentre si chiudeva l’indagine dell’Ufficio requirente di Firenze, prendeva

le mosse quella avviata dalla Procura di Caltanissetta.

In data 26/8/1999 veniva concessa da questo Ufficio la proroga del termine

delle indagini preliminari per sei mesi, poiché alcuni accertamenti di

particolare complessità erano ancora in corso.

In data 29/2/2000, veniva concessa altra proroga del termine delle indagini

per ulteriori sei mesi in considerazione dell’esigenza di completare

ulteriormente le investigazioni.

Il termine per le investigazioni scadeva il 23/7/2000.

In data 2/3/2001, il P.M. in sede depositava presso questo Ufficio la

richiesta di archiviazione del procedimento e contestualmente trasmetteva i

21 faldoni che contenevano gli atti di indagini.

Dopo che – com’è notorio – tutti gli organi di stampa avevano dato notizia

4

di tale determinazione del P.M., in data 22/3/2001 il difensore di Silvio

Berlusconi chiedeva a questo Ufficio il rilascio di copia della richiesta di

archiviazione avanzata dalla Procura in sede nel presente procedimento,

facendo riferimento ad “un’attestazione ricevuta in data 1/3/2001 che si

allega in copia”.

La richiesta del predetto difensore veniva dal G.I.P. trasmessa al P.M.

perché fornisse il suo parere in considerazione del fatto che la stessa

Procura aveva disposto la secretazione dei nominativi degli indagati, pure

mantenuta al momento del deposito della richiesta di archiviazione.

In relazione a tale ultimo profilo, il G.I.P. dava atto che i plichi contenenti

il provvedimento di iscrizione e contestuale secretazione (dai quali si

ricavano le effettive generalità dei soggetti sottoposti ad indagine), nonché

le richieste e i decreti di proroga delle indagini preliminari, risultavano già

aperti al momento del deposito della richiesta di archiviazione e del

fascicolo nella Cancelleria dell’Ufficio.

Il G.I.P. dava altresì atto che, a differenza di quanto asserito dal difensore

richiedente, non era stata allegata all’istanza la copia dell’attestazione della

Procura in sede in data 1/3/2001 che lo avrebbe ufficialmente informato

del deposito della richiesta di archiviazione. La data dell’1/3/2001 peraltro

è antecedente a quella di deposito della richiesta di archiviazione presso

questo Ufficio (deposito, come si è detto, avvenuto il 2/3/2001).

Il P.M. forniva parere favorevole e aggiungeva che l’apertura dei plichi era

stata dovuta “alla verifica di corrispondenza tra il numero di iscrizione e i

soggetti” e che, quanto all’attestazione richiamata dal difensore ma non

prodotta, “si tratta di mera comunicazione orale, da parte della Segreteria,

previa autorizzazione”.

In data 23/3/2001 questo Ufficio rilasciava copia della richiesta di

archiviazione al difensore di Berlusconi, dando atto che, sulla base alle

spiegazioni fornite dal P.M. nel suo parere, le esigenze di riservatezza che

lo avevano indotto a secretare i nominativi degli indagati potevano

ritenersi del tutto superate.

E’ fatto notorio che tra il 27/3/2001 ed i giorni successivi la stampa ha

fornito ampia contezza dei contenuti della richiesta di archiviazione con

espliciti riferimenti ai nominativi degli odierni indagati.

Alla luce di tutte le predette circostanze e del fatto che la maggior parte

delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia agli atti sono state rese in

pubblici dibattimenti, appare chiaramente superfluo nel presente

provvedimento utilizzare le sigle convenzionali attribuite dal P.M. agli

odierni indagati per mantenerne riservata l’identità; pertanto costoro

5

saranno sempre indicati con i loro nominativi e le loro generalità.

2. Gli atti contenuti nel fascicolo

Il presente procedimento contiene una copiosa quantità di atti investigativi,

confluiti da diversi altri procedimenti, nonché di atti giudiziari, parte dei

quali su supporto informatico.

Essi provengono tra l’altro:

- dall’originario procedimento a carico di ignoti, aperto dalla Procura in

sede, per i reati di strage che avevano come obiettivo il dott. Falcone e

il dott. Borsellino;

- dai procedimenti instauratisi dinanzi all’A.G. di Firenze per le stragi

consumate a Roma, Firenze e Milano negli anni 1993-1994 e di cui

sopra si è parlato; tra questi, la sentenza di I grado a carico di Bagarella

+ 25, nonché alcuni verbali dibattimentali di escussione di collaboratori

di giustizia;

- dai giudizi instauratisi dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta per

la strage di Capaci, per la strage di Via D’Amelio e per l’attentato

dell’Addaura in danno di Giovanni Falcone; tra questi, diversi verbali

dibattimentali di escussione di collaboratori di giustizia;

- dal procedimento n. 2566/98 r.g.n.r. pendente dinanzi all’A.G. di

Palermo (c.d. “sistemi criminali”) per il reato di associazione mafiosa e

di associazione eversiva;

- dal procedimento pendente dinanzi all’A.G. di Palermo a carico di

Marcello Dell’Utri per il reato di cui agli artt.110-416bis c.p.; tra questi,

atti di indagine e verbali dibattimentali considerati dal P.M. in sede

rilevanti per l’accertamento dei presunti contatti di Dell’Utri con

l’organizzazione “cosa nostra”.

- dal procedimento n.263/95 r.g.n.r. della Procura di Aosta (c.d. “Phoney

Money”) a carico di Scalesse Girolamo e altri; in tale procedimento,

dopo che fu accertata l’esistenza di un’organizzazione a delinquere

finalizzata a commettere ingenti truffe e attività di riciclaggio attraverso

operazioni finanziarie, emersero diversi elementi (compendiati nei

verbali e negli atti investigativi confluiti nel presente fascicolo) che

dimostravano come alcuni protagonisti di queste condotte illecite si

erano adoperati per condizionare esponenti delle istituzioni nelle scelte

politiche che segnarono il periodo coevo e immediatamente successivo

alle stragi del 1993;

- dal procedimento n. 4488/95 r.g.n.r. della Procura di Torino – gruppo

6

reati tributari; tra questi verbali di interrogatorio e atti di indagine che

evidenziano i rapporti di FININVEST con Ezio Cartotto;

- dal procedimento c.d. “Oceano”, dal quale sono state acquisite alcune

note investigative elaborate su delega del P.M. di Milano;

- dai vari procedimenti del P.M. di Sciacca e del P.M. di Milano a carico

di Massimo Maria Berruti, dai quali emergono le attività economiche

lecite e illecite di quest’ultimo, i suoi contatti con la FININVEST da un

lato e con esponenti di “cosa nostra” dall’altro;

- dal proc. n.1208/96 r.g.n.r. della Procura di Caltanissetta, nel quale

erano state valutate come inattendibili alcune dichiarazioni “de relato”

dei collaboranti Tullio Cannella e Gioacchino Pennino a carico del dott.

Luigi Croce ed erano emersi, come scrisse il GIP in sede nel decreto di

archiviazione in data 6/7/1999, “aspetti alquanto inquietanti, specie in

considerazione della… commistione di probabili menzogne e marginali

verità”.

Il P.M. nisseno ha inoltre svolto ulteriori attività di indagine, il più delle

volte coordinate con altre autorità inquirenti competenti per procedimenti

collegati, e che sono consistite in ulteriori interrogatori di collaboratori di

giustizia e di persone informate sui fatti, nonchè in una serie di

accertamenti investigativi delegati alla DIA.

Agli atti si rinvengono anche due videocassette: la prima contiene

un’intervista al collaboratore Maurizio Avola del 14/12/1999, spedita da

Roberto Gugliotta, la seconda contiene un’intervista al collaboratore

Salvatore Cancemi, senza data, spedita da Sigfrido Ranucci di RAI NEWS

24. I contenuti delle stesse sono meramente reiterativi delle dichiarazioni

rese dagli stessi collaboranti agli Uffici inquirenti che li avevano in

precedenza escussi.

In atti si rinviene anche una dichiarazione sottoscritta da Ranucci, nella

quale egli affermava di aver consegnato l’8/7/2000 al dott. Tescaroli la

videocassetta contenente l’intervista rilasciata dal dott. Borsellino il

21/5/1992 ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo; affermava

altresì di essere venuto in possesso della videocassetta il 7/7/2000, tramite

consegna della signorina Fiammetta Borsellino, che l’aveva rinvenuta

nell’archivio del padre.

Il P.M. con provvedimento a margine disponeva l’inserimento agli atti;

tuttavia nel fascicolo trasmesso al GIP, allegata a questo documento

trovasi la sopracitata videocassetta contenente l’intervista a Cancemi (pure

proveniente da Ranucci ma depositata in altra data). Non è stata invece

rinvenuta alcuna cassetta contenente la registrazione di tale intervista al

7

dott. Borsellino, nonostante la specifica indicazione nell’indice.

Vi è in atti una copia della trascrizione di essa, pubblicata sulla rivista

“L’Espresso” dell’8/4/1994.

Risulta da tale pubblicazione che il magistrato fece specifico riferimento

all’esistenza di atti di indagine che accertavano rapporti poco chiari tra

Mangano e Dell’Utri, precisando tuttavia di non poter fornire indicazioni

specifiche in quanto non si era mai occupato direttamente di

quell’inchiesta.

La segnalata lacuna del fascicolo, in relazione alla mancanza della

videocassetta depositata da Ranucci, non appare a questo Ufficio influente

per la definizione del procedimento, in quanto già da quel che risulta dalla

trascrizione dell’intervista non emergono elementi di determinante

interesse con riferimento all’ipotesi accusatoria.

Si vedrà che dagli altri atti investigativi, contenuti al fascicolo, risulterà

agevolmente accertabile l’esistenza di rapporti e contatti tra Mangano e

Dell’Utri in forza sia delle indagini cui si riferiva il magistrato sia di quelle

successivamente svolte. Le circostanze cui ha fatto riferimento Borsellino

erano già ampiamente note all’epoca dell’intervista, come da lui stesso

sottolineato. Infine, da quanto dichiarato dal magistrato ai giornalisti

francesi che lo intervistavano, egli non era direttamente interessato alle

indagini, sicchè i contenuti, i tempi e le forme delle sue esternazioni

riguardanti Dell’Utri non potrebbero costituire adeguati spunti indiziari in

relazione ad un eventuale movente del suo assassinio.

Per vagliare l’ipotesi accusatoria, originariamente formulata dal P.M., e la

richiesta di archiviazione avanzata dallo stesso P.M. a questo Ufficio,

occorre svolgere un’attenta selezione del copioso e variegato materiale agli

atti, sopra schematicamente indicato; quindi, proprio in considerazione

della gravità dell’imputazione e della qualità degli indagati, che il P.M. ha

inteso segnalare nella sua richiesta, è necessario esaminare

approfonditamente tutti quegli elementi che potrebbero prefigurare un loro

interesse o movente alla realizzazione dei reati per cui si procede e una

loro eventuale condotta di istigazione al compimento di tali delitti; verrà

così verificato se tali indizi abbiano avuto un riscontro positivo o negativo,

se abbisognino di ulteriori approfondimenti o se, invece, nell’insussistenza

di altre plausibili e utili piste investigative, siano di per se stessi inidonei a

sostenere l’accusa in dibattimento.

8

3. I fatti oggetto del presente procedimento, le responsabilità degli

aderenti all’organizzazione mafiosa “cosa nostra”, le eventuali

ulteriori responsabilità

3.1 – Le stragi di Capaci e di Via D’Amelio sono state oggetto di diversi

processi, che, com’è notorio, hanno visto quali imputati numerosi

appartenenti a “cosa nostra”. E’ del pari notorio che l’ipotesi accusatoria

che riconduceva a tale organizzazione la deliberazione e l’esecuzione di

tali stragi ha trovato positivo riscontro in sede dibattimentale e le Autorità

giudiziarie competenti la hanno accolta irrogando numerose e severe

condanne a carico dei dirigenti di “cosa nostra”, nonchè degli affiliati e

degli “avvicinati” che avevano contribuito alla realizzazione delle stragi

stesse.

Nell’ambito di questi dibattimenti, è pure emerso che tali gravi delitti

trovarono ragione in una complessiva strategia di attacco dell’associazione

“cosa nostra” finalizzata a riaffermare le proprie posizioni a seguito delle

prime più incisive azioni dello Stato nei suoi confronti, ma fu evidenziata

la scansione assolutamente inedita delle due stragi, tra loro molto

ravvicinate nel tempo, nonché la loro coincidenza con un delicato

momento politico-istituzionale, nel quale le sorti e i propositi di “cosa

nostra” sembravano intersecarsi con la crisi delle formazione politiche che

per decenni erano state forze di governo in Italia.

Occorrerà ripercorre le tappe di tali vicende, avvalendosi della

ricostruzione della Direzione centrale della Polizia di Prevenzione in data

5/2/1998.

Il 18 febbraio 1991 il dott. Giovanni Falcone veniva chiamato a dirigere

l’Ufficio Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia all’epoca retto

dall’on. Claudio Martelli.

Nell’aprile dello stesso anno il governo Andreotti adottava un decretolegge

per impedire le scarcerazioni per decorrenza termini di cui avevano

già beneficiato diversi aderenti ad organizzazioni mafiose.

Alla fine dello stesso anno si celebrava il III grado di giudizio dinanzi alla

I Sezione della Corte di Cassazione per il maxiprocesso di Palermo ed il 30

gennaio 1992 veniva emessa una sentenza che, recependo l’ipotesi

accusatoria in ordine al funzionamento della commissione di “cosa nostra”,

annullava le assoluzioni dei personaggi di vertice dell’organizzazione,

confermando le altre condanne.

Trascorrevano poco più di due mesi ed il 12/3/1992, nel corso della

campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Italiano, veniva ucciso

Salvo Lima, esponente della corrente andreottiana in Sicilia. In quello

9

stesso periodo Elio Ciolini, un detenuto già condannato per depistaggio,

forniva delle informazioni relativamente ad un piano destabilizzante che si

stava preparando in Italia e che prefigurava gravi attentati a personaggi

delle istituzioni nel periodo di marzo-luglio 1992; il Ministero dell’Interno

inviava allora una circolare a tutti i prefetti d’Italia, sollecitando un

rafforzamento delle misure di sicurezza.

Dopo le elezioni politiche del 5 e 6 aprile, che indebolirono i partiti

tradizionali di governo, i cui esponenti erano stati già colpiti dalle inchieste

giudiziarie c.d. di “Tangentopoli”, si dimettevano il 24 aprile il Presidente

del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, e poi, il giorno dopo, anche il

Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

In questa situazione, e dopo un conflitto istituzionale tra il Ministro di

Grazia e Giustizia Martelli e il CSM relativo alla nomina di Giovanni

Falcone a Procuratore Nazionale Antimafia, il 23 maggio avveniva la

strage di Capaci.

Due giorni dopo veniva eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi

Scalfaro e si riproponeva la questione della designazione del Procuratore

Nazionale Antimafia; nel dibattito emergeva la candidatura di Paolo

Borsellino.

Il 6/7/1992 trapelava la notizia del trasferimento degli imputati e dei

condannati per associazione mafiosa nelle carceri di massima sicurezza di

Pianosa e di Fossombrone.

Il 19/7/1992 veniva fatta esplodere l’autobomba di via D’Amelio.

Venivano a questo punto adottate iniziative legislative e di polizia

particolarmente penetranti nei confronti delle organizzazioni mafiose. In

particolare veniva accelerata la conversione in legge del d.l. 8/6/1992

n.306 recante provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, in

relazione al quale in un primo momento alcune forze politiche avevano

opposto delle resistenze.

Il Ministro degli interni dell’epoca, Nicola Mancino (verb. P.M.

Caltanissetta 28/6/2000), ha riferito che, dopo le stragi di Capaci e di Via

d’Amelio e dopo l’adozione di misure di penetrante contrasto a “cosa

nostra” (operazione “Vespri Siciliani”, introduzione del regime carcerario

differenziato di cui all’art.41bis O.P., trasferimento dei mafiosi nelle

carceri di Pianosa e dell’Asinara), tutti i vertici di Polizia e dei Servizi

Segreti si erano convinti che il fronte dell’aggressione mafiosa si sarebbe

spostato dalla Sicilia verso il Continente, dove nel frattempo si era fatta più

debole la presenza dello Stato. Tale convincimento venne poi confermato

dalla strage di via dei Georgofili a Firenze.

10

***

3.2 – Risulta in atti che le stragi di Capaci e di Via D’Amelio furono

rivendicate dalla “Falange Armata”, una sigla con la quale per la prima

volta il 22/5/1990 un anonimo telefonista si era attribuito la paternità

dell’omicidio di un educatore del carcere di Opera di Milano e in nome

della quale molti altri messaggi telefonici o epistolari nel corso degli anni

si attribuiranno la paternità di svariati omicidi e attentati, diffondendosi in

valutazioni politiche circa la necessità di una strategia eversiva e

mostrando approfondita conoscenza delle vicende istituzionali in atto.

I giudici della Corte di Assise di Firenze nella sentenza a carico di

Bagarella + 25 in data 6/6/1998 (depositata il 21/7/1999) evidenzieranno

come gli uomini di “cosa nostra” che organizzarono ed eseguirono gli

attentati stragisti del 1993 avevano anche il compito di mimetizzare

l’attività dell’organizzazione attraverso delle rivendicazioni degli attentati

a nome della “Falange Armata”. Ma, come pure risulta in atti, questa sigla

aveva operato e continuò ad operare anche al di là dell’uso strumentale che

ne fecero gli aderenti a “cosa nostra”; tuttavia oltre all’individuazione di

alcuni telefonisti che avevano agito per suo conto, le indagini non

ottennero risultati e non consentirono di accertarne in maniera univoca e

definitiva la matrice.

La Corte di Assise di Caltanissetta, nella sentenza che ha concluso il c.d.

“Via D’Amelio ter”, ha sostenuto che “risulta quanto meno provato che la

morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta

e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare – cumulando i suoi

effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla

compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto

alla mafia più intensa che nel passato ed indurre coloro che si fossero

mostrati disponibili tra i possibili referenti, a farsi avanti per trattare un

mutamento di quella linea politica (…).

E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva

eliminare persone che come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi

tentativo di approccio con cosa nostra”.

A queste conclusioni la Corte è giunta valorizzando anche le dichiarazioni

di diversi collaboratori di giustizia che contengono anche quegli elementi

costituenti notitia criminis a carico degli odierni indagati.

Appare allora opportuno esaminare, in maniera approfondita, le

propalazioni dei collaboratori a carico di Berlusconi e Dell’Utri nei loro

contenuti, nella loro genesi e nella loro progressione, tenendo conto dei

verbali a disposizione di questo Ufficio.

11

4. Le dichiarazioni di Salvatore Cancemi

4.1 – Salvatore Cancemi è un collaboratore di giustizia che proviene dai

ranghi direttivi di “cosa nostra”, essendo stato reggente del mandamento di

Porta Nuova e come tale componente della c.d. “Commissione

Provinciale”, competente a decidere gli omicidi di uomini dello Stato;

questo suo ruolo era già noto agli investigatori, prima ancora che egli se lo

attribuisse con le sue dichiarazioni e che lo confermassero altri

collaboratori provenienti dalla stessa organizzazione.

La sua collaborazione è iniziata, quando egli ha deciso di consegnarsi

spontaneamente ai Carabinieri il 22/7/1993. Sui motivi di tale decisione

non sono state acquisite indicazioni univoche. Altri collaboranti, come

Brusca, hanno sostenuto che Cancemi all’interno di “cosa nostra” aveva

favorito propri parenti e per questo doveva essere ucciso; resosi conto del

pericolo, dopo aver ricevuto un messaggio che gli fissava un appuntamento

che sarebbe dovuto essere per lui una trappola, egli avrebbe riparato sotto

la protezione dei CC.

Cancemi non ha smentito del tutto la circostanza, ammettendo che Raffaele

Ganci gli aveva detto di stare attento ad andare agli appuntamenti. Ha poi

pure spiegato di essersi presentato ai CC con un biglietto relativo ad un

appuntamento fissatogli da Bernardo Provenzano, biglietto che consegnò

ai militari per consentire loro utili e immediate attività investigative. Ha

invece escluso che la sua costituzione spontanea nascesse dal timore di

essere ucciso.

Le Corti di Assise nissene che ne hanno valutato l’attendibilità e che lo

hanno giudicato come concorrente nelle stragi di Capaci e di Via

D’Amelio hanno evidenziato che Cancemi fu certamente mosso

dall’intento di allontanarsi da “cosa nostra” per motivi non univocamente

accertabili e che cercò la protezione dello Stato perché comunque l’uscita

dall’organizzazione, vista anche la sua pregressa posizione di rilievo, ne

avrebbe potuto comportare l’eliminazione fisica.

Il suo percorso collaborativo, specie in ordine alle sue conoscenze e alle

sue responsabilità nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio (quelle che

interessano il presente procedimento), è stato quanto mai accidentato e

costellato da reticenze, che sono state già oggetto di approfondita

esplorazione da parte dei giudici dibattimentali.

All’inizio egli negò di essere uno dei componenti della Commissione

Provinciale (ruolo spettantegli quale reggente di un mandamento) e negò

12

pure di aver preso parte a queste due stragi; successivamente ha ammesso

di aver concorso a quella di Capaci, continuando a negare qualsiasi

responsabilità nell’attentato al dott. Borsellino. Solo nel 1996, e dopo che

altri collaboratori lo avevano chiamato in causa, ha ammesso di aver preso

parte pure alla strage di via D’Amelio.

Questo comportamento è stato spiegato dal Cancemi con il travaglio

psicologico, che gli rendeva difficile d’un tratto uscire dalla mentalità di

“cosa nostra” e superare la “vergogna ad ammettere alcune cose”. Si è

descritto “come una vite arrugginita che ci vuole del tempo per svitarla”

(cfr. verb. 29/4/1999 dinanzi alla Corte di Assise di Firenze proc. Graviano

+ 3).

Per giustificare la gradualità della sua collaborazione ha spesso invocato –

con formule talvolta stucchevoli – la consapevolezza degli effetti

dirompenti che le sue dichiarazioni avrebbero avuto su “cosa nostra” (“io

a cosa nostra ci ho creato un terremoto di decimo grado”; cfr. verb.

29/4/1999, cit.).

***

4.2 – In relazione a quanto di interesse per il presente procedimento,

Cancemi ha dichiarato al P.M. nisseno l’1/11/1993 che, nel maggio del

1992, di ritorno da una riunione con altri soggetti di “cosa nostra”, egli

aveva discusso con Raffaele Ganci dell’attentato a Giovanni Falcone.

Ganci gli avrebbe detto che Riina aveva avuto un incontro con persone

molto importanti, insieme alle quali aveva deciso di “mettere una bomba a

Falcone. Queste persone importanti” – avrebbe aggiunto Ganci – “hanno

promesso allo zù Totò che devono rifare il processo nel quale lui è stato

condannato all’ergastolo”.

Ganci non avrebbe aggiunto altro né Cancemi ritenne di fargli altre

domande. Trascorsi una ventina di giorni, si verificò la strage di Capaci.

In quell’interrogatorio Cancemi disse di essere andato con Ganci a due

riunioni con altre persone di “cosa nostra” ma non fornì alcuna

dichiarazione relativa alle proprie condotte di concorso nella strage.

Nell’interrogatorio del 2/11/1993, Cancemi ha ricollocato nel tempo la

conversazione intrattenuta con Ganci; ha parlato di tre riunioni, ha

affermato che il colloquio ebbe luogo dopo la terza riunione, avvenuta

proprio nei dintorni di Capaci, e che la strage avvenne circa 8-10 giorni

dopo.

Nell’interrogatorio del 4/11/1993, Cancemi ha nuovamente ricollocato nel

tempo la detta conversazione, confermandone tuttavia ulteriormente il

contenuto.

13

Nel corso dell’interrogatorio del 7/1/1994, ha rievocato “il discorso… che

Ganci mi confidò che Salvatore Riina si era incontrato con personaggi

importanti proprio in relazione all’attentato in danno del giudice Falcone

per ottenere in cambio una probabile revisione dei processi o altri favori

come per esempio la non approvazione della legge sui pentiti o comunque

di non rendere possibile una legislazione sfavorevole all’organizzazione di

cosa nostra”. Ha aggiunto: “Mi rendo conto che (…) devo indicare alle

SS.LL. fatti e circostanze precise. Sono certo che con il tempo e quando io

riacquisterò una serenità interiore io sarò in grado di affrontare più

completamente questo discorso, ma siate certi sin da ora che le parole di

Raffaele Ganci a proposito dell’incontro avuto con Salvatore Riina

rispondono purtroppo a verità”

“Ribadisco di non aver saputo da Ganci Raffaele né quando mi fece

questa confidenza, né in epoca successiva sino alla data della mia

costituzione, chi erano i personaggi importanti in contatto con Riina”. In

quell’occasione Cancemi si limitò a ricostruire il mutamento delle scelte

elettorali di “cosa nostra”, che alla fine degli anni “80 decise di indirizzare

i propri voti verso alcuni candidati del PSI anziché, come tradizionalmente

aveva fatto, verso esponenti della DC.

Sul punto il P.M. nisseno tornò durante l’interrogatorio del 18/2/1994, ma

ancora una volta Cancemi ribadì la veridicità del colloquio senza

aggiungere altri particolari. Affermò: “una cosa deve essere chiara che

queste ‘persone importanti’ non erano certo uomini di ‘cosa nostra’,

perché più importanti di Riina e Provenzano non ce ne sono all’interno

dell’organizzazione e quindi i personaggi con cui Riina si è incontrato li

dovete cercare fuori dall’organizzazione”.

***

4.3 – Nel corpo di quel verbale, Cancemi, pur continuando ad astenersi

dall’identificare tali soggetti, introdusse alcune circostanze relative ai

rapporti che Riina in precedenza aveva instaurato con persone che si

potevano considerare “importanti” ed esterne a “cosa nostra” e parlò di

Berlusconi e di dell’Utri, assumendo al contempo un atteggiamento

possibilista in ordine all’eventualità di fornire in futuro altre informazioni

(“Voglio che sia verbalizzato che è probabile che io possa ricordare altri

episodi specifici circa i contatti tra Mangano e Dell’Utri, anche se in

questo momento non mi vengono in mente, non perché io non li voglia

riferire, ma perché si tratta di fatti molto vecchi che richiedono un grosso

sforzo di memoria da parte mia”).

Ricostruì allora un episodio, poi nei successivi verbali ribadito dallo stesso

14

collaborante, e riguardante un’iniziativa di Totò Riina finalizzata a gestire

direttamente i contatti con Berlusconi e Dell’Utri

Riferì – sul punto si vedano anche il verbale di interrogatorio al P.M. di

Caltanissetta in data 25/2/1994, quello ai P.M. di Firenze e di Palermo in

data 5/8/1996 e quello ai P.M. di Firenze e di Caltanissetta in data

23/4/1998, sostanzialmente sovrapponibili in considerazione delle

marginali discrasie nella ricostruzione dei fatti – di essere stato convocato

da Salvatore Riina tra il 1990 e il 1991 presso l’abitazione di Girolamo

Guddo e di aver partecipato ad un incontro con lui, con Raffaele Ganci e

con Salvatore Biondino. In quella occasione Riina gli avrebbe ordinato di

rivolgersi a Vittorio Mangano e di dirgli che doveva mettersi da parte

rispetto a Berlusconi.

Riina considerava il rapporto con Berlusconi “un bene per tutta cosa

nostra” e voleva gestirlo direttamente; aveva detto a Cancemi che, se

Mangano si fosse mostrato riluttante, avrebbe dovuto fargli presente che

Riina non aveva dimenticato uno sgarbo ricevuto, cioè il fatto che

Mangano aveva regalato un’arma al suo avversario Stefano Bontade.

Cancemi ricevette questo incarico in quanto egli era reggente di Porta

Nuova e a quel mandamento apparteneva Mangano; peraltro Cancemi ha

sostenuto di essere già a conoscenza dei rapporti di quest’ultimo con

Berlusconi, perché gliene aveva parlato lo stesso Mangano. Tra il 1973 e il

1974 Mangano lavorava nelle proprietà di Arcore e, secondo quanto

raccontava, lì avevano soggiornato anche vari latitanti, come Nino Grado,

Francesco Mafara, Salvatore Contorno, dedicandosi al traffico di droga e ai

sequestri di persona. Cancemi ha pure riferito di aver incontrato in epoca

non meglio precisata all’interno di un bar nelle vicinanze della sua

abitazione al Nord lo stesso Mangano, che gli mostrò un rotolo di

banconote, nascoste in un calzino, dicendogli erano provento di un

sequestro di persona.

Ha poi riferito – nel verbale del 23/4/1998 – di un altro non meglio

precisato sequestro di cui gli parlò Mangano, che sarebbe fallito a causa

della nebbia ed a seguito del quale uno degli esecutori (non ricorda chi)

aveva smarrito il proprio documento di identità; ha dichiarato di ricordare

che questo sequestro fallito era comunque collegato alla villa di

Berlusconi, ma non ha saputo indicare in che modo.

Nel precedente interrogatorio del 18/2/1994, Cancemi aveva aggiunto un

altro particolare: in occasione del colloquio sull’invito da rivolgere a

Mangano di mettersi da parte, Riina “precisò che, secondo degli accordi

stabiliti con Dell’Utri, che faceva da emissario per conto di Berlusconi,

15

arrivavano a Riina 200 milioni l’anno in più rate, in quanto erano

dislocate a Palermo più antenne”.

Sempre nello stesso contesto, Cancemi aveva affermato di essere certo che

il rapporto tra Riina e Dell’Utri fosse risalente quantomeno al 1989 e ha

dichiarato di aver assistito più volte alle consegne di questo denaro in rate

da circa 40 – 50 milioni; “queste rate venivano consegnate non so da chi a

Pierino Napoli, reggente della famiglia di Malaspina, compresa nel

mandamento La Noce. Ho visto personalmente, ripeto in più occasioni,

Pierino Napoli consegnare al Ganci Raffaele il denaro proveniente dal

Nord. Anzi posso aggiungere che più volte ho sentito personalmente

Salvatore Riina dire a Ganci Raffaele, quando c’erano ritardi nelle

consegne, ‘Faluzzo, viri di viriri a Pierino se siggiu ddì picciuli, viri di

sollecitari (Raffaele, vedi di dire a Pierino se ha riscosso i soldi, vedi di

sollecitare)’”. L’ultima consegna di denaro da Pierino Napoli a Ganci, alla

quale assistette Cancemi, sarebbe avvenuta due mesi prima dell’attentato a

Falcone.

Il collaboratore ha ancora riferito che Riina gli disse che Berlusconi

doveva acquistare immobili diroccati nella zona di Via Maqueda.

***

4.4 – Tornando all’ordine di Riina a Cancemi riguardante i rapporti tra

Mangano e Dell’Utri, il collaborante ha raccontato che si recò a trovare lo

stesso Mangano in casa sua dove era ristretto agli arresti domiciliari; ha

collocato il fatto in epoca imprecisata ma comunque nel periodo estivo del

1991. Mangano mostrò delle resistenze, sostenendo tra l’altro di avere

mantenuto da molto tempo quel rapporto dopo essere stato stalliere alla

villa di Arcore.

Il collaborante ha affermato di non conoscere in che modo Riina gestì

direttamente quel contatto.

Ha poi riferito, su domanda del P.M., che i rapporti di “cosa nostra” con

Dell’Utri e Berlusconi erano risalenti nel tempo; in una prima fase i

predetti erano stati collegati con Stefano Bontate, Pietro Lo Iacono e

Girolamo Teresi della “famiglia” della Guadagna. Attraverso queste

persone Mangano era riuscito ad entrare in contatto con i due odierni

indagati. (verb. 23/4/1998).

Da Mangano, poi, Cancemi avrebbe saputo che anche Giovanni e Ignazio

Pullarà avevano intrattenuto rapporti con Berlusconi e Dell’Utri; sul punto

il collaborante è stato in realtà molto confuso, ma ha comunque escluso di

conoscere per quali vie e in che modo tali contatti fossero gestiti.

***

16

4.5 – Sentito dal P.M. nisseno in data 17/11/1993, Cancemi – il quale

ancora non aveva ammesso il suo coinvolgimento nella strage di via

D’Amelio – riferì che Ganci gli aveva confidato, dopo l’uccisione del dott.

Borsellino, che quell’attentato era stato voluto da Totò Riina.

Quest’ultimo, alla presenza del collaboratore, aveva affermato nel corso di

una riunione a casa di Guddo, avvenuta dopo la morte del dott. Falcone e

durante la quale si brindò all’accaduto, che egli si assumeva tutta la

responsabilità del fatto e aveva preannunciato l’eliminazione fisica del

dott. Borsellino.

In data 8/3/1994, Cancemi ha ribadito al P.M. di Firenze la circostanza del

colloquio con Ganci relativo alle “persone importanti”, con le quali era in

contatto Riina per l’attentato al dott. Falcone nell’ambito di una strategia

antipentitismo concordata con i predetti non meglio definiti personaggi.

Ai P.M. di Roma e di Milano in data 15/3/1994 ha esplicitato che, dopo le

stragi di Capaci e di via D’Amelio, “da quello che sentivo dire da Riina e

da Biondino (…), si era certi che lo Stato non avrebbe reagito, i rapporti

che loro facevano comprendere avere con altre persone erano tali da non

far presumere reazioni forti”.

Successivamente Cancemi è stato sentito dalla Corte di Assise di

Caltanissetta nel processo a carico di Aglieri Pietro + 40 per la strage di

Capaci (ud. 19/4/1996 e ud. 18/9/1996) ed ha ancora una volta ribadito la

vicenda della riunione a casa di Guddo, i discorsi di Riina e di Ganci e ha

confermato che l’obiettivo perseguito da Riina era quello di ottenere

sostanziali modifiche della legislazione e degli orientamenti giudiziari

grazie a dei referenti politici; non ha tuttavia parlato di quali fossero tali

referenti, dicendo che Riina era molto riservato sul punto.

Il collaboratore è stato ancora sentito dall’Ufficio requirente nisseno in

data 29/1/1998 e gli è stata data lettura di tutte le sue precedenti

dichiarazioni; il collaborante ha affermato di ritenere che non vi fossero

discrasie nelle ricostruzioni via via offerte agli Uffici inquirenti. Ha

ribadito ancora una volta che Ganci non gli disse chi erano le “persone

importanti” con le quali Riina aveva parlato dell’esecuzione dell’attentato

a Falcone, ma ha esplicitato che egli dedusse trattarsi di Berlusconi e

Dell’Utri alla luce di altri fatti, in particolare della richiesta precedente di

mettere da parte Mangano nel rapporto con i due odierni indagati e poi di

un’affermazione di Riina nel corso dei festeggiamenti a casa di Guddo,

dopo la strage di Capaci, quando lo stesso Riina avrebbe detto: “io mi sto

giocando i denti, possiamo dormire tranquilli, ho Dell’Utri e Berlusconi

nelle mani e questo è un bene per tutta cosa nostra”.

17

Nel già citato verbale del 23/4/1998 ai P.M. di Firenze e di Caltanissetta,

Cancemi ha poi parlato di un’altra riunione avvenuta nel 1992 a casa di

Guddo, probabilmente diversa da quella sopra accennata, e nella quale egli

avrebbe avuto dimostrazione del fatto che effettivamente Riina aveva

attivato dei contatti con Berlusconi e Dell’Utri. In quell’interrogatorio la

sua ricostruzione si è fatta assai più ricca.

Ha affermato il collaborante che, durante la riunione, Riina li consultò su

una serie di richieste che egli avrebbe dovuto inoltrare in un incontro che si

stava ancora preparando: “un giorno ci siamo incontrati io, Riina, Ganci e

credo Biondino Salvatore, che è venuto … ci doveva dare alcuni punti, di

fare annullare l’ergastolo, di fare annullare la legge sui pentiti, il

sequestro dei beni e altre cose, diciamo ha parlato con me e con Ganci

(…)”

“Erano sei o sette punti”.

Quanto all’epoca in cui sarebbe avvenuta questa riunione, Cancemi su

domanda del P.M. ha risposto: “Mi sembra che c’era stata Capaci.”

“P.M.: Allora nel periodo…

Cancemi: Questo a cavallo…

P.M.: Tra…

Cancemi: Sì.

P.M.: Capaci e Via D’Amelio?

Cancemi: Sì”

(…)

“P.M.: E queste richieste in quell’occasione disse a chi dovevano essere

rivolte?

Cancemi: Lui più volte ha detto che aveva queste persone nelle mani,

quindi Berlusconi e Dell’Utri, quindi queste cose lui le doveva girare a

queste persone. Per me era una cosa…

P.M.: Sì, ma nel corso di questa, in questa riunione riprese il discorso di,

chiarendo…

Cancemi: (…) sì, lui in questa, in questa riunione dice che ci doveva fare

avere queste cose a queste persone, Berlusconi e Dell’Utri, i nomi che ha

fatto erano questi qua. Anche dopo diciamo lui parlava sempre di queste

persone, anche dopo quest’incontro mi ricordo che, altre, un paio di volte

ha parlato sempre di queste persone.”

Cancemi ha pure precisato che quella fu la prima occasione in cui Riina

parlò a loro di richieste da avanzare a queste persone.

Quanto alle successive occasioni in cui Cancemi avrebbe parlato con Riina

di Berlusconi e Dell’Utri, il collaborante non è stato sempre

18

sufficientemente preciso:

“Mi ricordo una volta ha fatto un discorso che cercava di portare queste

persone (spiegherà poi Cancemi che “portare significa… di portarli a

comandare”), gli dovevamo poi, diciamo nel futuro, portare queste

persone perché lui cercava con queste bombe di sfiduciare, diciamo,

quelle che c’erano attuali, in sella. (…) Presenti c’erano Ganci Raffaele,

quello era sempre presente e credo anche il Biondino Salvatore (…)

P.M.: Allora ci vuole puntualizzare in quale occasione Riina aveva detto

che con queste bombe si voleva cercare di sfiduciare la classe…

Cancemi: ma l’occasione (…) erano quando si pigliava l’argomento,

diciamo, che queste persone lui l’aveva nelle mani, stava facendo queste

cose che ci spiegava, che era un bene per tutta cosa nostra e lui diceva:

‘noi con questi qua li dobbiamo sostenere’, perché cercava di sfiduciare a

quelli che sono in sella, usava la parola lui, usava proprio questa, io

credo…”

Il collaborante ha anche detto che in quel periodo Riina stava approntando

una lista di persone da uccidere, perché avevano delle “colpe” con “cosa

nostra”; seppe che tra gli obiettivi rientravano il dott. Vigna, il questore La

Barbera, l’on. Martelli.

Cancemi ha raccontato un altro episodio riferito a quello stesso periodo:

Riina gli chiese di alcuni quadri di valore che erano stati rubati in un

palazzo di Piazza Marina a Palermo e che erano conservati presso una

stalla di Francesco La Marca e li invitò a fargli avere delle foto di alcuni di

essi, considerati più importanti. L’ordine di Riina fu presto eseguito, ma i

quadri non vennero mai spostati dal luogo dove stavano conservati, almeno

fino alla costituzione dello stesso Cancemi.

Ai P.M. che gli hanno chiesto il motivo per il quale aveva introdotto

questo argomento nel contesto della narrazione della iniziativa di Riina per

inoltrare richieste a Berlusconi e Dell’Utri, Cancemi ha risposto: “io vi

devo dire quello che mi risulta, lui è stato proprio in quel periodo che mi

ha chiesto queste cose qua, esatto? Però con tutta onestà non me l’ha

detto: ‘Io ce lo devo dare a Berlusconi e a Dell’Utri’, non me lo ha detto,

però il contesto era là”.

L’Ufficio inquirente ha invitato Cancemi a precisare se questa vicenda

l’avesse appresa dalla stampa, visto che nel dibattimento per le stragi di

Firenze era emersa, e poi era stata divulgata dai giornali, la circostanza di

un tentativo di “cosa nostra” palermitana per concordare uno scambio tra la

restituzione di opere d’arte allo Stato e la concessione degli arresti

domiciliari per alcuni detenuti più anziani; il collaborante ha confermato di

19

aver riferito fatti di propria esperienza. Nel dibattimento dinanzi alla Corte

di Assise di Firenze (verb. 29/4/1999), il collaboratore in esame ha ribadito

poi di aver preso parte a questa attività consistita nel controllare e

fotografare i quadri per Riina, affermando che quest’ultimo in quel periodo

aveva delle trattative, ma che nulla gli disse in ordine a chi potessero

interessare le suddette fotografie.

Cancemi ha inoltre riferito che, dopo l’arresto di Riina, avvenuto nel

gennaio 1993, ebbe a parlare più volte con Provenzano delle strategie già

messe in atto dallo stesso Riina per risolvere i problemi dei detenuti e

fiaccare la reazione dello Stato; ma Provenzano lo avrebbe tranquillizzato:

“Mi rispose così: ‘Totuccio stai tranquillo, stai tranquillo, stiamo a buon

punto, non pensare che io dimentico, diciamo, né carcerati né nessuno. I

discorsi stanno andando avanti quelli con zio Totuccio, si stanno portando

avanti’”.

In sostanza, secondo Cancemi, Provenzano gli fece intendere che

manteneva la linea di Riina; tuttavia non gli specificò mai quali erano i

suoi interlocutori e soprattutto se erano gli stessi di Riina.

***

4.6 – Sui fatti sinora esposti, Cancemi è tornato nuovamente

nell’interrogatorio reso al P.M. di Caltanissetta in data 23/10/1998 per

approfondire gli aspetti relativi ad un progetto di attentato ai danni del

dott. Pietro Grasso; ha ribadito la vicenda relativa all’invito a Mangano di

mettersi da parte nei rapporti con Berlusconi e dell’Utri, la strategia di

Riina di colpire gli esponenti del mondo politico che gli avevano “voltato

le spalle”, la messa a punto della strategia nella villa di Guddo

Ulteriore rilevante tappa della collaborazione di Cancemi, specie in ordine

alle sue dichiarazioni a carico degli odierni indagati, è costituita dalla sua

deposizione dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta (udd. 17/6/1999 e

successive) nel processo a carico di Agate Mariano + 26; giudizio nel

quale egli stesso era imputato per la strage di via D’Amelio.

In quell’occasione Cancemi è tornato a parlare della riunione nella villa di

Guddo, successiva alla strage di Capaci e collocabile all’incirca a giugno

del 1992, nella quale Riina avrebbe espresso la sua volontà di uccidere

Borsellino, affermando che se ne assumeva tutta la responsabilità. Cancemi

ha sostenuto di aver sentito un colloquio sull’argomento, avvenuto tra

Raffaele Ganci e Riina che si erano appartati, e di averne avuto conferma

dallo stesso Ganci durante il viaggio di ritorno, raccogliendo da

quest’ultimo affermazioni di perplessità sull’utilità del delitto (“questo ci

vuole rovinare tutti”).

20

Il collaboratore ha specificato che già prima era stata discussa la proposta

di uccidere Borsellino, nell’ambito di un complessivo progetto di

eliminazione fisica di una serie di esponenti delle istituzioni che avevano

tradito o che avevano contrastato “cosa nostra” e ai quali bisognava dare

un’adeguata punizione per l’esito del maxiprocesso in Cassazione.

L’obiettivo strategico era per un verso impedire le collaborazioni con la

giustizia e rendere meno credibili i c.d. “pentiti”; per altro verso trattare

con nuovi referenti per ottenere significative modifiche della legislazione

antimafia.

Ha di nuovo narrato delle confidenze che gli fece Ganci a proposito del

fatto che Riina aveva parlato con “persone importanti” prima di decidere la

strage di Capaci; ha ricostruito ancora la vicenda dell’invito di Riina a

Mangano a mettersi da parte nella gestione dei rapporti con Dell’Utri e

Berlusconi, quella dell’intervento di Riina a favore di una società facente

capo a Berlusconi per l’acquisto di edifici del centro storico di Palermo,

nonché infine la circostanza relativa all’erogazione periodica di un

“contributo” di costoro a favore di “cosa nostra”.

Cancemi ha esplicitamente sottolineato che tutte le volte in cui Riina

parlava delle modifiche legislative da lui auspicate a beneficio di “cosa

nostra”, diceva che “queste persone noi li dobbiamo garantire ora e nel

futuro di più”.

Ha aggiunto sempre in quell’occasione che a queste riunioni, svolte a casa

di Guddo, durante le quali Riina diceva loro di avere “nelle mani”

Dell’Utri e Berlusconi, era presente Brusca (cfr. verb. ud. 23/6/1999, pagg.

94 ss.) e, su specifica domanda del Presidente della Corte di Assise, ha

affermato che alla riunione di giugno del 1992 (quella durante la quale

Riina e Ganci si appartarono a parlare dell’eliminazione di Borsellino e

Riina disse che si assumeva tutta la responsabilità della cosa) erano

presenti anche Biondino, che aveva accompagnato Riina, e Brusca che era

arrivato successivamente da solo.

Si segnala sin d’ora che Brusca – le cui dichiarazioni saranno esaminate

compiutamente nel par. 6 – ha confermato di aver partecipato a queste

riunioni a casa di Guddo, dietro Villa Serena, e in particolare ha ricordato

proprio la riunione di giugno del 1992 pressoché con gli stessi partecipanti

indicati da Cancemi; non ha parlato tuttavia del colloquio riservato tra

Ganci e Riina. Ha detto che in quell’occasione, dopo aver commentato la

strage di Capaci, si ritornò a parlare del fatto che non ci si doveva fermare

solo a quella e che si doveva continuare a fare attentati a “nemici ed ex

amici”. Ha aggiunto: “si parlava … quello sulla bocca era sempre

21

Martelli, Andò, La Barbera; come gli ho detto non c’era bisogno più di

ritornare sul punto del dottor Borsellino in quanto era stato menzionato

così, molto veloce, già precedentemente… fine febbraio-inizi di marzo”

(verb. 29/6/1999, C.Ass. Caltanissetta, proc. n.22/98 c. Riina + 6 per la c.d.

strage dell’Addaura).

Cancemi ha invece affermato di aver percepito nella riunione di giugno

una chiara volontà di accelerare i tempi: “io ho capito che il Riina aveva

premura, come vi devo dire, una cosa…di una cosa veloce, aveva… io

avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva… la doveva fare al

più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso”.

Brusca dal canto suo ha sostenuto di aver avuto in altra occasione e in altro

modo consapevolezza di tale accelerazione: “Io apprendo come fatto

esecutivo la strage del dott. Borsellino tre giorni prima che succedesse da

Biondino Salvatore e mi dice. ‘siamo sotto lavoro’ e poi quando apprendo

dalla TV con… Siccome io non mi ero visto con Salvatore Riina quindi

vuol dire che qualche cosa era successo. Cosa gli avevano detto, cosa era

successo non glielo so dire, però c’è stata un’accelerazione” (ud. Corte di

Assise di Appello di Caltanissetta del 2/7/1999, relativo alla strage di

Capaci; successivamente in verb. P.M. Caltanissetta del 9/3/2000).

***

4.7 – Dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta, Cancemi ha motivato il

ritardo delle sue dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio, perché “i

discorsi” di Riina su “queste persone che lui aveva nelle mani”, “che lui

ci diceva che erano quelli che è un bene per cosa nostra” lo

preoccupavano, lo frenavano e lo inducevano a pensare che se avesse

raccontato tutto quello che sapeva su questo attentato e su quanto vi era

sotteso sarebbe potuto accadere “qualcosa di grosso”.

La Corte di Assise di Caltanissetta che lo ha giudicato quale concorrente

della strage di Via D’Amelio (proc. n.27/97) nella motivazione della

sentenza, pure citata dal P.M. nella sua richiesta di archiviazione, ha

rilevato che tale giustificazione del Cancemi alle sue reticenze “appare

chiaramente smentita dal fatto che il collaborante, prima ancora di

confessare la sua partecipazione alla strage per cui è processo, aveva già

indicato delle circostanze che avrebbe dovuto tacere se questa fosse stata

l’effettiva motivazione del riserbo. Egli infatti già in relazione alla strage

di Capaci aveva dichiarato di aver appreso da Ganci Raffaele, mentre si

recava in auto con lui presso la villetta di Capaci, che il Riina aveva

incontrato ‘persone importanti’ (…) Non era pertanto la remora a parlare

di contatti di “cosa nostra” con ambienti esterni che condizionava le

22

dichiarazioni del Cancemi, che appare unicamente interessato a

ridimensionare il suo ruolo e preoccupato di coprire le altrui

responsabilità solo nella misura in cui può altrimenti derivarne un

aggravamento della sua posizione processuale”.

Ma il giudizio complessivo delle Corti di Assise che hanno valutato le

dichiarazioni di Cancemi sulle stragi del 1992 (e ciò lo si ricava proprio

dai diversi passaggi motivazionali citati dal P.M.) risulta positivo,

essendosi affermato che “una volta individuato il solo fattore inquinante

della collaborazione del Cancemi nella predetta volontà di esagerata

autoprotezione e così spiegata l’indubbia progressione accusatoria delle

sue dichiarazioni, ben possono le medesime essere utilizzate” e dando atto

che il loro analitico esame “conferma l’attendibilità delle sue chiamate in

correità nei confronti degli imputati per cui è processo”.

Tale valutazione della Corte di Assise appare fortemente ancorata alle

vicende processuali che hanno caratterizzato la collaborazione di Cancemi;

peraltro in questa prospettiva non potrebbe non tenersi conto che il suo

contributo è comunque valso ad accertare le gravi responsabilità penali di

molti dei capomandamento di “cosa nostra” e degli esecutori materiali

aderenti alla stessa organizzazione.

In ordine alle chiamate in correità degli odierni indagati da parte di

Cancemi, va rilevato anzitutto che il suo ruolo di primo piano in quel

periodo all’interno di “cosa nostra” (egli era reggente dell’importante

mandamento di Porta Nuova) ed i suoi contatti accertati con Ganci e quindi

con Riina avrebbero potuto metterlo in condizione di conoscere anche le

notizie più riservate circa la deliberazione delle stragi.

Proprio per sottrarsi alle sue responsabilità egli ha sempre cercato di

negare ogni forma di attiva partecipazione alle decisioni e alla

preparazione di tali delitti, cercando di presentarsi come soggetto

semplicemente informato in maniera anche generica di talune circostanze

in virtù della fiducia che gli altri associati riponevano in lui.

Ha via via confessato le sue condotte dopo essere stato coinvolto da altri

collaboranti, ma sempre svalutando il proprio concreto ruolo nei singoli

fatti delittuosi.

In questo controverso percorso collaborativo e nel quadro di tale

comportamento si inseriscono le progressive dichiarazioni di Cancemi

sugli odierni indagati; nei suoi resoconti egli appare sempre estraneo alle

discussioni, ora destinatario di confidenze del Ganci, ora occasionale

spettatore di colloqui tra Ganci e Riina, ora mero esecutore di incarichi

relativi alle trattative, lo scopo dei quali avrebbe compreso per mera

23

deduzione logica.

Non ritiene questo Ufficio che, in astratto, le accuse ad eventuali

“mandanti esterni” a “cosa nostra” potessero risultare strumentali ad

alleggerire le sue responsabilità; anzi al contrario, la sua posizione poteva

essere soltanto ulteriormente aggravata, qualora egli avesse ricostruito con

puntualità e certezza tutte le condotte idonee a fargli conoscere i

prefigurati accordi dei massimi esponenti di “cosa nostra” con personaggi

di rilievo esterni ad essa.

Si impone tuttavia di valutare un’ipotesi alternativa, e cioè che Cancemi

abbia introdotto con le chiamate in correità in esame delle circostanze false

– in maniera volutamente generica – al fine di accreditare ancor più la

propria collaborazione, stante il rilievo politico e la notorietà degli

accusati.

La genericità e la mutevolezza delle sue dichiarazioni a carico di

Berlusconi e Dell’Utri potrebbe infatti spiegarsi, anziché con il tentativo di

offrire agli inquirenti una notizia in suo possesso ridimensionando il suo

ruolo nella fase deliberativa della strage, con il diverso tentativo – mal

riuscito – di introdurre elementi fantasiosi e non facilmente verificabili.

Il collaboratore, oggetto di diverse valutazioni negative da parte delle

Autorità Giudiziarie in ordine alla sua lealtà, è stato perlopiù segnalato –

da quanto risulta dai provvedimenti in atti – per il suo comportamento

omissivo, e cioè per aver tenuto nascoste responsabilità proprie o di

complici successivamente accertate grazie ad altri mezzi di prova; sicchè le

sue propalazioni sono state valutate con la massima prudenza e sono state

utilizzate in presenza di adeguati, specifici e rassicuranti riscontri di

carattere estrinseco.

A queste condizioni, le sue chiamate in correità hanno concorso

all’accertamento delle responsabilità di molti imputati con ruoli di primo

piano in “cosa nostra” e non risultano sinora emersi comportamenti

calunniatori all’esito dei dibattimenti relativi alle stragi per cui si procede.

Quanto sinora detto, se da un canto non autorizza a svalutare

pregiudizialmente le propalazioni di Cancemi a carico degli odierni

indagati, d’altro canto impone di apprezzarle con estremo rigore, per

verificare se esse – già poco soddisfacenti sul piano della sussistenza dei

requisiti di attendibilità intrinseca – siano assistite da elementi esterni di

riscontro adeguatamente specifici.

Giova ricordare che pende dinanzi a questo Ufficio altro procedimento a

carico di Cancemi, instaurato a seguito delle querele avanzate da

Berlusconi e Dell’Utri, nel quale sarà poi valutato se le dichiarazioni del

24

collaboratore integrino gli estremi dei reati di calunnia e di diffamazione.

5. Le dichiarazioni di Angelo Siino

5.1 – Il collaboratore di giustizia Angelo Siino (verb. P.M. Caltanissetta

28/11/1997) ha ricostruito il contesto nel quale erano maturate le forti

avversioni dell’organizzazione “cosa nostra” nei confronti di Falcone e

Borsellino, fornendo ampie indicazioni sul fatto che tali sentimenti erano

condivisi anche dai personaggi politici e dagli imprenditori che in qualche

modo mantenevano contatti o avevano cointeressenze con quella

associazione criminale. In particolare ha riferito che alla fine degli anni

“80 il gruppo Ferruzzi-Gardini era venuto in Sicilia e aveva rilevato tutte le

imprese di “cosa nostra” che versavano in difficili condizioni economiche

o che rischiavano di essere sequestrate dall’Autorità Giudiziaria;

successivamente, nel 1987, in conseguenza dell’avvicinamento con quel

gruppo imprenditoriale, “cosa nostra” aveva deciso di convogliare i propri

voti verso le liste del PSI.

Presto si diffuse nell’organizzazione, in seguito ad alcune dichiarazioni

pubbliche di Falcone (tra le quali la seguente: “la mafia sta entrando in

borsa”), il timore che il magistrato avesse capito i nuovi rapporti

economici e politici di “cosa nostra”.

Siino ha riferito, riassumendo i contenuti di diversi suoi colloqui con Pino

Lipari, Giovanni Brusca, Salvo Lima, Ignazio Salvo e altri, che il

conferimento dell’incarico al ministero a Falcone da parte di Martelli

veniva considerato da “cosa nostra” come un tradimento da parte del

partito socialista e veniva ritenuto particolarmente pericoloso perché la

conoscenza di Falcone sui nuovi rapporti politici ed economici

dell’associazione mafiosa avrebbe costituito strumento di ricatto nei

confronti dello stesso Martelli. Il trasferimento del magistrato agli uffici

ministeriali e la capacità di influenza acquisita sulle scelte dell’esecutivo

costituiva, ad avviso dei vertici di “cosa nostra”, un suo primo passo per

acquisire un ruolo politico e istituzionale potenzialmente assai nocivo per

gli interessi mafiosi.

La strategia politica messa a punto da “cosa nostra” fu allora di

“agganciare Craxi”, considerato l’unico personaggio capace di mettersi

contro lo stesso Martelli, che ormai aveva affidato troppo potere a Falcone,

e contro il gruppo di Andreotti che aveva tradito le aspettative in ordine

all’esito del maxiprocesso.

Nino Gargano e Pippo Madonia dissero a Siino, all’epoca detenuto:

25

“Provenzano sta cercando di agganciare di nuovo Craxi! Se ci

riusciamo…”.

Berlusconi era considerato un tramite per giungere a Craxi; occasione

propizia dovevano essere gli attentati alla Standa di Catania, avvenuti tra il

1990 e il 1991: “nel momento che il signor Berlusconi si veniva a

lamentare: ‘nuatri putivami… accussì videmu d’agganciari Craxi’ tramite

Berlusconi”.

***

5.2 – Il 2/1/1998 al P.M. di Firenze Siino ha fornito una versione più

articolata di questa vicenda, riferendo circostanze diverse su come aveva

appreso delle modalità con le quali “cosa nostra” voleva creare un contatto

con Craxi.

Ha affermato di aver partecipato ad un incontro a Catania con Nitto

Santapaola, Eugenio Gallea, Vincenzo Aiello e Giovanni Brusca; durante

questo incontro Brusca si appartò con Santapaola. Successivamente

sarebbe stato Santapaola a riferire a Siino che durante quell’incontro

Brusca gli aveva chiesto di realizzare degli attentati alla Standa per

stimolare un contatto con Craxi.

Tale circostanza, come si vedrà, viene smentita dal Brusca, che ha negato

che tali attentati avessero finalità diverse da quella di mera estorsione.

Sovrapponibili alle dichiarazioni di Siino sulle finalità degli attentati (poi

effettivamente realizzati) sono invece le dichiarazioni di alcuni

collaboratori dell’area catanese. Sul punto si tornerà , quando sarà valutato

il contributo di Maurizio Avola (par. 11), nonché conclusivamente nel

par.15.4.

Durante la sua detenzione, agli inizi del 1993, Siino fu poi invitato

attraverso la moglie a nominare come proprio difensore l’avv. Vittorio

Virga, persona considerata vicina a Craxi e con la quale si voleva

instaurare un legame da utilizzare successivamente; Virga tuttavia non

accettò l’incarico.

Il collaboratore ha poi riferito di un altro episodio, che vide protagonista

Antonino Gioè. Questi ebbe con lui alcuni significativi colloqui relativi ai

nuovi assetti di “cosa nostra”; in uno di questi gli parlò di Massimo

Berruti, un ex ufficiale della Guardia di Finanza in contatto con Totò Di

Ganci (rappresentante della “famiglia” di Sciacca) e gli disse che Leoluca

Bagarella avrebbe dovuto incontrarlo per avviare dei contatti con Craxi.

Gioè, che era stato arrestato nel marzo 1993, spiegò che Bagarella, il quale

stava assumendo posizioni dominanti in “cosa nostra” dopo la cattura di

Riina tanto da intimorire anche Bernardo Provenzano, aveva nei suoi

26

programmi di fare azioni eclatanti in danno di monumenti ed edifici di

interesse artistico, tra i quali la Torre di Pisa. Aggiunse che in questa

iniziativa Bagarella si muoveva di concerto con i Graviano e mantenendo

contatti e coperture con i servizi segreti.

La conversazione venne interrotta da Siino per il timore di intercettazioni; i

due concordarono un espediente affinchè Gioè gli esplicitasse i termini

della loro strategia; Gioè fece trovare a Siino un biglietto manoscritto,

avvolto

Link to post
Share on other sites

dichiarazioni di altri collaboratori,

nonché altri elementi di prova, tutti sinora positivamente valutati dalle

Autorità Giudiziarie; tra questi ad esempio la sua ultima lettera del 1993

(sul punto si può richiamare la sentenza della Corte di Assise di Firenze

del 6/6/1998 relativa alle stragi del 1993, in particolare pagg. 1472 ss.).

Quanto ai contatti di Massimo Berruti con personaggi di “cosa nostra” e

con la famiglia di Sciacca in particolare, essi sono pure emersi dalle

indagini della Procura di Sciacca acquisiti agli atti (cfr. fald. 4/A-1).

Siino ha anche riferito che nel 1994 sua moglie gli fece sapere che

Giovanni Brusca aveva dato indicazioni in un primo tempo affinchè

l’organizzazione sostenesse elettoralmente il movimento “Sicilia Libera”

27

ed in un secondo momento aveva mandato a dire di votare per “Forza

Italia”. Brusca attraverso la moglie gli fece sapere che tale “Giovanni” era

pure d’accordo, ma Siino non riuscì mai a capire a chi Brusca volesse

riferirsi.

Tutte le suddette circostanze, che nel racconto di Siino disegnano un

preciso ruolo “politico” di Brusca, sono state smentite da quest’ultimo.

Siino ha invece reiterato le sue dichiarazioni, accusando Brusca di essere

condizionato da risalente malanimo nei suoi confronti.

6. Le dichiarazioni di Giovanni Brusca

6.1 – Brusca ha ricostruito le strategie di “cosa nostra” e di Totò Riina in

particolare, confermando la circostanza che l’eliminazione di Falcone era

stata studiata già sin dalla fine del 1990. Ha raccontato (verb. P.M.

Caltanissetta 7/9/1998) che Riina gli aveva detto, dopo la sentenza di

appello del c.d. “maxi-processo”, che bisognava stare tranquilli in attesa

della decisione della Cassazione; Riina lo aveva mandato in più occasioni

da Ignazio Salvo “per contattare i canali Lima, Andreotti, Carnevale”.

Salvo tuttavia “rispondeva picche (…) che non erano più i tempi di una

volta”. In questo momento cominciarono a maturare i propositi di Riina di

uccidere Salvo.

Brusca ha riferito di una riunione, avvenuta nel 1992, prima dell’omicidio

Lima, durante la quale si discusse “esclusivamente di un progetto di

eliminare tutta una serie di personaggi, però, quelli sul pentolone: Lima

prima e Falcone… (…) Si parla di personaggi politici, non politici, amici

o ex amici, persone che si erano messe a disposizione e che avevano

tradito (…) perché noi dovevamo stroncare l’attività politica o la corrente

politica di Andreotti in Sicilia, in quanto lui non si era interessato per il

maxi processo”.

Seguirono diverse altre riunioni, nelle quali si ribadirono gli obiettivi da

colpire, ivi compreso Borsellino. Come si è già anticipato esaminando le

dichiarazioni di Cancemi (par. 4.6), Brusca ha sostenuto che dopo la

strage di Capaci egli si doveva occupare di uccidere l’onorevole Mannino

e che, ad un certo momento, andatosi a consultare con Biondino e con

Riina sulle modalità dell’esecuzione dell’agguato, costoro gli dissero che

per il momento “erano sotto lavoro”; pochi giorni dopo avvenne la strage

di Via D’Amelio.

Il collaborante ha sottolineato: “non mi è stato mai richiesto: ‘…che ne

pensi… se vuoi uccidere il dottor Borsellino o meno o cose varie’, non mi

28

è stato chiesto, quindi io non è che potevo dire un parere, si o no. Uno:

perché non mi è stato chiesto; due: se mi veniva chiesto io avrei detto sì”.

In una di quelle riunioni Brusca apprese da Riina del “papello”, cioè di un

messaggio a personaggi istituzionali che conteneva le condizioni imposte

da “cosa nostra” allo Stato. Riina tra la strage di Capaci e quella di Via

D’Amelio gli disse che i suoi interlocutori erano sembrati in un primo

momento disponibili, ma poi avevano interrotto le trattative considerando

le condizioni troppo gravose.

Nell’interrogatorio del 2/10/1998, Brusca ha ricostruito questa vicenda, già

più volte accennata in precedenti interrogatori, ripercorrendo – in maniera

dettagliata – le tappe antecedenti all’avvio della trattativa.

Ha parlato di due riunioni che si tennero a casa di Guddo, dietro Villa

Serena, una dopo l’altra in data antedecente al 20 febbraio, comunque

successivamente alla sentenza del maxi-processo in Cassazione, quando

cioè cominciò a covare l’idea di colpire gli “ex amici” e i vecchi nemici al

fine di ottenere dallo Stato tutto quanto non era stato possibile ottenere

attraverso i consueti canali. Nella prima si discusse dell’eliminazione di

Ignazio Salvo e Brusca si mise a disposizione, nella seconda si studiarono

gli aspetti esecutivi; la realizzazione del progetto omicidiario fu poi

rinviata, ma frattanto Brusca partecipò ad altre riunioni in cui si pianificò

l’omicidio dell’on. Lima, quindi l’attentato a Falcone e nel frattempo si

discusse di diverse altre azioni di fuoco con obiettivi istituzionali; si parlò

di uccidere il questore La Barbera, a giudizio degli “uomini d’onore”

troppo impegnato nel contrasto alla mafia, l’on. Vizzini e l’on. Mannino,

responsabili di non aver favorito “cosa nostra” dopo averne preso i voti, il

dott. Borsellino, per le stesse ragioni per cui bisognava uccidere Falcone, e

con loro diverse altre personalità: “ognuno.. chi era il più bravo ne

metteva una sempre più grossa (…) ognuno ci mettevamo la nostra (…) a

queste persone… chi più ce ne era chi più ne metteva…”

Dopo l’omicidio Lima, Salvatore Biondino chiese a Brusca di fare qualche

attentato a delle sezioni della Democrazia Cristiana e il collaboratore si

offrì di farlo a Monreale, mettendosi subito alla ricerca di esplosivo poi

reperito nella cava di Buttita. Questi atti dimostrativi, a dire di Brusca, non

furono oggetto delle predette riunioni, ma il fatto che furono organizzati

dopo l’omicidio di Lima lo portò a ritenerli collegati con quella strategia.

Si passò poi alla fase della preparazione vera e propria della strage di

Capaci, discussa e pianificata sempre in casa di Guddo. Brusca ha riferito

che, durante questi incontri, commentò con Riina che quell’attentato

avrebbe impedito al sen. Andreotti di diventare Presidente della

29

Repubblica e si trovarono d’accordo sul fatto che l’effetto indotto dalla

morte di Falcone sarebbe loro servito per dare un’ulteriore “lezione” al

predetto uomo politico e alla sua corrente che negli ultimi tempi aveva

troppo disinvoltamente voltato le spalle a “cosa nostra”.

Realizzata la strage di Capaci, si misero sulle tracce di Mannino, per

conoscerne le abitudini e attentare alla sua vita; Brusca si impegnò

direttamente in quest’attività ma ad un certo punto Biondino gli disse di

sospendere tutto. Nel frattempo il collaborante continuò ad occuparsi di

Ignazio Salvo, “ma siccome non ho premura di farlo, me lo faccio quando

mi viene più comodo”.

***

6.2 – Brusca ha riferito che in seguito alla strage di Capaci, in più

occasioni, parlando a quattr’occhi con Totò Riina sempre nella villa di

Guddo, gli chiese se “si era fatto vivo qualcuno”, alludendo ai possibili

contatti che personaggi delle istituzioni avrebbero potuto intraprendere per

raccogliere le istanze di “cosa nostra”. “E fu lui…” ha affermato Brusca

“con sorpresa mi fa: ‘Dice mi vogliono portare a Bossi… mi vogliono

portare a Bossi tanti avvocati”; E mi dice: ‘ma questo è un pazzo, cioè

poco affidabile cioè non ci ho… non ci ho… fiducia’”.

In un successivo incontro, sempre nel 1992, Riina gli disse: “Si sono fatti

sotto, gli ho fatto un papello così”. Si trattava, secondo Brusca, di “tutta

una serie di benefici che si discuteva nel tempo!”.

Non è chiaro nel verbale del 2/10/1998 in esame, a quale mese del 1992

tale incontro deve riferirsi, poiché Brusca si dice incerto sul punto e

fornisce indicazioni compatibili sia con un periodo di poco antecedente

alla strage di Via D’Amelio sia con un periodo immediatamente

successivo.

In altri verbali, il collaborante sembra optare per la prima delle due

collocazioni temporali (sul punto si richiamano per tutte le dichiarazioni

rese al processo di appello per la strage di Capaci, ud. 2/7/1999: “Guardi

io non era sicuro se era avvenuto prima la strage Borsellino o dopo; sono

riuscito a potere mettere dei paletti con certezza a causa delle accuse che

mi faceva il Di Matteo Mario Santo, e quindi io, siccome poi in quel

periodo mi sono trasferito nel trapanese per commettere anche reati lì, ho

potuto stabilire che era prima della strage di Capaci. Quindi… dopo la

strage di Capaci e prima di quella del dott. Borsellino. Sarà stato una

settimana prima, saranno stati dieci giorni, quindici giorni, però,

nell’arco di questo tempo, prima sicuramente della strage del dottor

Borsellino”).

30

Facendo un passo indietro nel suo racconto, Brusca ha precisato di essersi

interessato ad intrattenere contatti con tale Bellini tramite Gioè, prima di

sapere da Riina che qualcuno “si era fatto sotto”. Il Bellini fece loro

sapere che in relazione al ritrovamento e alla consegna di opere d’arte si

sarebbero potute intavolare utili trattative.

Di queste trattative già si parlava prima ancora della strage di Capaci ed

erano finalizzate ad ottenere trattamenti più favorevoli per i detenuti di

“cosa nostra”, specie per quelli più anziani, come il padre del

collaboratore, per questo motivo interessato in prima persona.

Riina consegnò a Brusca delle fotografie di opere trafugate e la trattativa

riguardò benefici per cinque persone, tra i quali lo stesso Riina incluse

Pippo Calò del mandamento di Porta Nuova.

Si tratta evidentemente della stessa trattativa avente ad oggetto opere d’arte

di cui ha parlato Cancemi, che apparteneva appunto al mandamento di

Porta Nuova.

Ad un certo punto Riina aveva detto a Brusca di interrompere la trattativa,

perché l’avrebbe gestita direttamente. In un incontro successivo gli disse

che i suoi interlocutori si erano tirati indietro.

Il collaboratore ha comunque precisato che quella di Bellini era solo una

delle linee di trattativa intavolate da Riina, gestita separatamente ed

indipendentemente dalle altre (“sono due cose completamente diverse e

separate, almeno per quello che riguarda noi! Anche se poi ho saputo che

dietro le quinte, chi gestiva alla fine era sempre uno, da parte dello

Stato…ma io non lo so, io so Bellini… che per noi era tutta un’altra

strada”; verb. P.M. 2/10/1998, p. 67).

Su domanda del P.M., Brusca ha precisato che questi riferimenti erano

assai generici e non venivano da lui approfonditi.

Giova sin d’ora evidenziare che la vicenda della trattativa con Bellini (che

per “cosa nostra” aveva interessato in particolare Gioè) ha trovato

conferma nelle istruttorie dibattimentali del processo per la strage di Via

D’Amelio, nonché di quello per le stragi del 1993 (cfr. sent. C.Assise di

Firenze, pagg. 1482 ss., ove si riportano anche le dichiarazioni del

collaboratore Gioacchino La Barbera).

Brusca ha anche parlato degli accordi intervenuti con i catanesi (in

particolare tra costoro Eugenio Gallea e Santo Mazzei) per sostenere la

strategia di attacco di Salvatore Riina; di un progetto di sequestrare

Giuseppe Cambria, che finanziava i Salvo; del proposito già da tempo

coltivato di colpire il dott. Pietro Grasso, attentato questo studiato,

preparato e poi abbandonato per difficoltà di carattere esecutivo;

31

dell’incarico ai catanesi di studiare un attentato all’on. Andò e del

progetto, già in fase esecutiva a cura di uomini di “cosa nostra” operanti in

Roma, di uccidere l’on. Martelli, essendo ambedue gli esponenti del P.S.I.

considerati traditori in quanto su di loro aveva confidato ‘cosa nostra’ per

avere dei benefici, rimanendo poi delusa (dice significativamente Brusca in

proposito: “c’era l’onorevole Andò che nei suoi comizi… gridava per

garantismo, cioè per una serie di fatti generali, ma ne usufruiva ‘cosa

nostra’! E noi gli davamo questa interpretazione”; verb. P.M.

Caltanissetta 2/10/1998, p. 33; la responsabilità di Martelli era quella di

essersi alleato con Falcone “per rifarsi una verginità”).

A dire di Brusca, “il fine comune era di portare lo Stato a trattare con

‘cosa nostra’”; “e nello stesso tempo loro per i fatti suoi io non so per

quale motivo, si volevano togliere qualche spina o qualche cosa dalla

scarpa”.

Successivamente Brusca avrebbe chiesto conferme a Provenzano, durante

un incontro al quale era pure presente Bagarella, circa la reale sussistenza

di queste trattative di Riina con personaggi istituzionali, ma non ricevette

conferma. Fatto questo che comunque Brusca considerò poco indicativo,

perché conosceva il carattere estremamente riservato del suo interlocutore

(cfr. verb. 8/9/1998).

***

6.3 – Il P.M. di Caltanissetta ha di nuovo sentito su queste vicende il

Brusca in data 9/11/2000, successivamente alla sua deposizione nel

dibattimento per la strage di via D’Amelio, c.d. “ter”.

Gli chiese esplicitamente il Procuratore di Caltanissetta se avesse mai

avuto modo di sentire o vedere “persone o fatti che lo inducessero a

pensare che nelle stragi del 1992 vi fossero implicate a livello di

ideazione, persone diverse da quelle che sono appartenenti a cosa

nostra”.

Brusca ha affermato di non avere conoscenze specifiche su questi fatti ma

di essere in condizione di fare “un ragionamento su fatti che io conosco”.

Ha in proposito illustrato una serie di episodi dai quali ha ricavato che

Riina aveva come suo consigliere politico Antonino Cinà, aggiungendo lo

stesso Brusca che prima del suo arresto non ebbe mai a conoscere chi

fossero gli altri interlocutori politici all’esterno di cosa nostra. Sempre

prima del suo arresto Brusca chiese a Cinà come fosse “combinata” “cosa

nostra” in quel momento, se cioè vi fossero prospettive di successo per le

sue attività e la sua sopravvivenza e Cinà gli rispose: “siamo a mare,

cioè… mi abbracciava, mi allargava le mani come a dire siamo a mare”.

32

Ha ricollegato a tali fatti la vicenda, appresa dalla stampa, dell’avvio di

una trattativa tra i ROS dei CC e Ciancimino, interrottasi prima che venisse

ulteriormente perseguita la c.d. “strategia stragista” nel Nord Italia, così

come anche il dato di sua esperienza che Riina aveva organizzato con

“cosa nostra” una serie di omicidi di persone che facevano parte

dell’assetto politico-istituzionale per vendicare torti subiti e preparare il

terreno a nuovi interlocutori.

Ne ha concluso – sempre nell’ambito del suo “ragionamento” – che anche

le stragi del 1992 dovevano essere state organizzate ed eseguite nella

prospettiva di creare le condizioni per una trattativa, ma non ha saputo

indicare niente di più preciso.

***

6.4 – Quanto poi ai rapporti che “cosa nostra” avrebbe intrattenuto con

Dell’Utri e con Berlusconi, Brusca non si è detto in grado di fornire

indicazioni specifiche di sua diretta esperienza.

Va ricordato che egli non ha saputo dare precise notizie sugli interessi dei

Graviano nel Nord Italia (quelli che avrebbero potuto creare contatti anche

con gli odierni indagati) (verb.8/9/1998), e ha affermato di essersi rivolto a

Vittorio Mangano tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994 per sapere se

fossero vere le notizie che pubblicarono alcune riviste sui suoi rapporti con

Berlusconi, ricevendone conferma. Mangano gli disse di essere amico di

Berlusconi, per il quale aveva lavorato come stalliere (sul punto cfr. pure

l’interrogatorio dell’11/9/1996 e quello del 9/3/2000).

Brusca ha fatto riferimento ad un articolo letto sulla rivista “L’Espresso”,

che effettivamente (cfr. copia in atti) aveva pubblicato nel numero datato

8/4/1994 un dossier riguardante questi rapporti dal titolo “Ad Arcore c’era

uno stalliere…” e l’intervista (di cui si è detto al par. 2) nella quale Paolo

Borsellino, facendo riferimento ad un’intercettazione di una conversazione

tra Mangano e Dell’Utri, affermava: “so che ci sono indagini che lo

riguardano (Dell’Utri n.d.r.) e che riguardano insieme Mangano”.

Va comunque evidenziata la circostanza che nel corpo dell’articolo si fa

riferimento alle notizie date in precedenti numeri del settimanale in ordine

alle dichiarazioni di Cancemi secondo le quali Mangano avrebbe curato la

riscossione del “pizzo” dalla Fininvest “per non avere guai alle antenne in

Sicilia”. Sicchè l’epoca dell’episodio riferito potrebbe essere retrodatata,

ma certamente di non molte settimane.

Su queste circostanze occorre ripercorre in maniera puntuale tutta la

ricostruzione fornita dal collaborante.

I rapporti tra Brusca e Mangano erano particolarmente qualificati; si erano

33

conosciuti in carcere tra il 1986 e il 1987 e poi Brusca e un suo parente

avevano fatto in modo di fargli assegnare la reggenza della “famiglia” di

Porta Nuova, dopo che Cancemi si era consegnato ai Carabinieri.

Brusca gli chiese allora se poteva attivarsi per ripristinare questi contatti e

Mangano si rese disponibile. Fece diversi viaggi a Milano per portare a

termine il compito affidatogli da Brusca e che consisteva nell’avanzare a

Berlusconi le richieste che stavano a cuore all’associazione “cosa nostra”,

come ad esempio l’abrogazione del regime detentivo speciale per i mafiosi

e l’ammissione di costoro ai benefici della legge Gozzini.

Mangano si servì di un altro intermediario, che diceva a Brusca chiamarsi

Roberto e che faceva “l’imprenditore all’interno della Fininvest…aveva

l’appalto delle pulizie all’interno della Fininvest”; nessun altra

informazione su questa persona ha saputo fornire il collaborante, tuttavia

ha escluso che Mangano gli abbia detto di avere contattato Dell’Utri.

“Io glieli ho mandati a dire un po’ tutti assieme, però nel tempo, se non

con la minaccia, se non avrei continuato le stragi… se loro non avrebbero

fatto niente. Dice ‘no, no, no’ e mi manda a dire, tramite Vittorio

Mangano, cioè di stare calmo piano piano che ora si va vedendo. Ma poi

subito tutto finì lì perché Vittorio Mangano poi viene arrestato, io non

avevo più contatti, il governo Berlusconi subito dopo è caduto, quindi i

contatti miei sono finiti qua”.

Brusca ha affermato di aver informato di questa sua iniziativa solo Leoluca

Bagarella e non è stato preciso su quando egli aveva avviato tali contatti,

fornendo tuttavia indicazioni compatibili con un’epoca precedente alle

consultazioni elettorali del 1994; ha tra l’altro parlato di un incontro

politico-elettorale che si doveva fare con Berlusconi in un ristorante di

Palermo e che avrebbe dovuto organizzare Mangano anche per consentire

in quell’occasione agli uomini dell’organizzazione un contatto diretto con

lui (incontro questo che poi non ebbe mai luogo).

Brusca ha aggiunto di non essersi tuttavia attivato come altri componenti

del suo sodalizio criminoso per sostenere il movimento “Forza Italia” e che

nessuno – neanche Mangano – glielo chiese.

Peraltro Bagarella si occupava del movimento “Sicilia Libera”, con il quale

sperava di influenzare le scelte politiche in favore di “cosa nostra”; in

questa attività contava sul contributo dei fratelli Graviano, che invece ad

un certo punto si defilarono. Brusca lo capì quando l’imprenditore Ienna,

vicino ai Graviano, mise a disposizione il suo hotel, il “San Paolo Palace”,

per l’inaugurazione di un club “Forza Italia” e di questo fatto Bagarella

non fu informato.

34

***

6.5 – All’idea di interessare Mangano per riagganciare i rapporti con

Berlusconi, Brusca sarebbe giunto, quindi, a suo dire, dopo le stragi del

Nord Italia; egli aveva chiesto a Bagarella se avesse ancora dei contatti:

“quando Bagarella mi allarga le mani che non aveva più nessuno, cioè

per la strage al nord io convinto che lui avesse qualcheduno e mi diceva

che non aveva nessuno e che Giuseppe Graviano l’aveva lasciato in mezzo

a una strada, o perlomeno si erano tirati indietro, sempre a dire del

Bagarella, al che io gli dico: ‘proviamo questa strada’… perché avevo

letto su ‘Repubblica’… ’L’Espresso’ questa intervista o queste

dichiarazioni (…).

Credo che erano già i primi attacchi politici nei confronti di Silvio

Berlusconi, cominciano a uscire indiscrezioni, per dire Silvio Berlusconi

aveva amici mafiosi, cioè questo era il senso per me di quelle, di quelle

notizie… Quindi io leggendo questo gli chiedo a Vittorio Mangano se era

vero o non era vero (…) e quello mi conferma tutto paro paro: ‘sì, vero è’.

Allora dico ‘sei in condizioni di ripristinare, cioè di riprendere un’altra

volta i contatti con Berlusconi?’ Dice ‘sì’, dice: ‘fammi vedere’. Va a

Milano, torna e mi porta la risposta che è a disposizione, cioè c’è il

contatto di potere riprendere con Silvio Berlusconi, però non gli domando

tramite chi.”.

Brusca prima gli mandò a dire che le stragi del 1993 e del 1994 erano

“colpa del governo precedente, perché i Carabinieri, le forze di polizia

sapevano…” e che perciò lo stesso Berlusconi avrebbe potuto sfruttare

queste circostanze per “attaccare il governo precedente, che era un

governo di sinistra, anche se era un governo tecnico, ma era un governo di

sinistra, e che se lui non sarebbe venuto incontro a noi con certe esigenze

avremmo continuato con lui nel fare le stragi, ma era un bluff perché non

c’era nessuna volontà di andare avanti”.

Così Mangano gli raccontava delle modalità con le quali avevano luogo i

contatti: “mi diceva che lo contattava tramite questo amico e ci parlava

questo amico suo per telefono, perché poi loro si vedevano per i fatti suoi,

e poi lui aveva le conferme tramite questo suo amico. Ogni tanto quando

non erano vicino, quello gli telefonava: ‘lo sai qua c’è un amico mio…’ gli

diceva ‘…c’è quell’amico mio quello delle arance…’ dice che a Silvio

Berlusconi piacevano le arance, li portava dalla Sicilia, era un fatto che

gli era rimasto impresso, quindi con questo tipo di messaggi l’amico suo

gli faceva capire che c’era Vittorio Mangano, che già aveva ricevuto

notizie di quello che Vittorio Mangano gli aveva detto…”.

35

***

6.6 – Brusca, smentendo le dichiarazioni di Siino, ha sottolineato che, per

quanto a sua conoscenza, non vi era alcun collegamento tra gli attentati

alla “Standa” di Catania e queste trattative e ha sostenuto che avevano solo

finalità estorsive (verb.8/9/1998).

Nell’occasione del citato interrogatorio dell’8/9/1998 dinanzi ai P.M. di

Caltanissetta, su esplicita domanda, Brusca escluse di essere a conoscenza

di contributi in denaro versati dalla FININVEST a “cosa nostra”, pur

affermando che, per contro, non poteva neanche escludere che le notizie

fornite in questo senso da altri collaboratori potessero essere veridiche.

Successivamente, in data 21/9/1999, fu sentito su sua richiesta dai P.M. di

Firenze e rappresentò di aver ricordato che nel corso degli anni 82-83

Ignazio Pullarà, reggente della famiglia di Santa Maria di Gesù a partire

dall’arresto del fratello Giovan Battista, gli diceva che a Berlusconi e a

Canale 5 “gli faceva uscire i picciuli”, che venivano erogati con un

versamento mensile. Non gli spiegò mai a che titolo si facesse elargire

quelle somme, ma gli disse di essere subentrato in un rapporto già

instaurato da Stefano Bontade. Queste notizie sono state ribadite nel

verbale di interrogatorio ai P.M. nisseni del 26/6/1999.

In tale contesto, su domanda dell’Ufficio inquirente, Brusca ha pure

escluso di aver mai sentito parlare Riina di Berlusconi e Dell’Utri

nell’ambito delle riunioni tenutesi durante il 1992 per mettere a punto la

c.d. “strategia stragista”.

Sul punto il Brusca è stato particolarmente chiaro.

Ha affermato di conoscere le dichiarazioni di Cancemi in ordine alle

confidenze che avrebbe ricevuto da Riina sui contatti con Berlusconi e

dell’Utri, ha ammesso di aver partecipato con lui a due riunioni precedenti

alla strage di Capaci, ma ha comunque escluso che in quelle occasione si

fosse parlato dei due odierni indagati. Non ha invece escluso che in altre

occasioni Cancemi abbia potuto avere informazioni di quel tipo da Riina.

In ogni caso ha negato di aver assistito o partecipato, prima della sua

iniziativa con Mangano, ad attività che potevano coinvolgere Berlusconi o

Dell’Utri, anche perché il suo ruolo era strettamente legato al territorio di

Palermo (“non è stato mai per dire Berlusconi ha mandato questo,

Dell’Utri ha mandato questo, o c’è questo canale, alla mia presenza non

c’è mai stato perché (…) non ha niente a che fare con i problemi della

città, quindi sicuramente i discorsi sono stati fatti però io non ne so

nulla…”).

***

36

6.7 – Occorre evidenziare che il contributo di Brusca è stato positivamente

apprezzato dalla Corte di Assise di Caltanissetta in ordine alla

ricostruzione della fase deliberativa ed esecutiva delle stragi per cui si

procede.

Del pari positivo è stato l’apprezzamento della Corte di Assise di Firenze.

Bisogna evidenziare che i giudici fiorentini hanno ritenuto ampiamente

riscontrato l’episodio riferito da Brusca e inerente il c.d. “papello”, cioè le

richieste che Riina avrebbe rivolto ad alcuni organi istituzionali e che

avevano ad oggetto degli immediati benefici per gli “uomini d’onore” in

carcere e lo smantellamento della legislazione e delle pronunce giudiziarie

che avevano danneggiato “cosa nostra”. Si legge nelle motivazioni della

loro sentenza: “Brusca dice il vero quando afferma che la richiesta di

trattare, formulata da un organismo istituzionale a lui sconosciuto (oggi si

sa che erano gli uomini del ROS), indusse Riina a pensare (e a comunicare

ai suoi accoliti) che ‘quelli si erano fatti sotto’. Lo indusse cioè a ritenere

che le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, da poco avvenute, avevano

completamente disarmato gli uomini dello Stato; li avevano convinti

dell’invincibilità di ‘cosa nostra’; li avevano indotti a rinunciare all’idea

del ‘muro contro muro’ ed a fare sostanziali concessioni

all’organizzazione criminale cui apparteneva (…)” (sent.6/6/1998, p.

1547).

Ad avviso di quella Corte, invece, la stasi della trattativa aveva indotto

l’organizzazione mafiosa a mettere in esecuzione i successivi attentati del

1993, il cui metodo era stato già messo a punto e la cui esecuzione era stata

sospesa in attesa dell’esito della trattativa stessa.

La Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Via D’Amelio-ter” ha

invece ritenuto che non potesse con certezza considerarsi dimostrata

l’identità tra le trattative di cui ha parlato Brusca e i contatti tra i ROS e

Vito Ciancimino nell’ambito di una serie di iniziative finalizzate a

coinvolgere quest’ultimo come “agente sotto copertura” nel settore della

gestione illecita degli appalti, in cambio di benefici per la sua posizione

processuale.

Orbene, dopo il dibattimento di Firenze, Brusca ha ricollocato con

precisione la riunione in cui Riina gli parlò del “papello” e, come si è visto

nel precedente par. 6.2, ha affermato che essa avvenne in epoca

antecedente alla strage di Via D’Amelio (la sentenza della Corte di Assise

di Firenze riporta ancora che Brusca “circa l’epoca in cui apprese di

questa trattativa non si è rivelato sicuro”; p. 1540).

Il Magg. De Donno ha riferito di aver avviato contatti con Ciancimino

37

prima della strage di Via D’Amelio, ma gli incontri del Gen. Mori con l’ex

sindaco di Palermo, legato a “cosa nostra”, avvennero tra il 5 agosto e il 18

ottobre 1992.

La coincidenza temporale e il “ragionamento” del Brusca, a questo punto,

non sono sufficienti per considerare scontato che De Donno e Mori fossero

i personaggi che si erano “fatti sotto”, secondo l’acre espressione di Riina.

I termini della proposta offerta dagli ufficiali del ROS a Ciancimino –

ricostruibili oggi solo sulla base delle loro stesse testimonianze – ed il

contenuto del “papello” di cui parla Brusca e che riecheggia nelle

dichiarazioni di numerosi altri collaboratori non coincide; tanto più che

una delle condizioni dell’accordo perseguito dai ROS era la cattura di

Riina, cioè di colui il quale avrebbe predisposto il “papello” stesso.

Il fatto che Brusca non sia in grado di fornire indicazioni più precise non

consente di avvalorare né l’ipotesi, tenuta presente da ambedue le Corti,

che Ciancimino non riportasse fedelmente alle due parti i contenuti dei

colloqui intrattenuti con gli uomini di “cosa nostra” e con i ROS, né

l’ipotesi assai più suggestiva, avanzata solo dalla Corte di Firenze, che il

“papello” potesse essere stato affidato da Riina a Cinà (l’uomo di

collegamento con gli ambienti politici), il quale a sua volta lo avrebbe

tenuto per sé e non lo avrebbe fatto conoscere a Ciancimino in attesa di

verificare la “serietà” delle proposte della controparte.

In ogni caso, nessuna delle due Corti ha ritenuto inattendibile sul punto il

Brusca, ritenendo credibile che egli abbia appreso la notizia della trattativa

da Riina e ritenendo comunque riscontrata una complessiva strategia di

“cosa nostra” finalizzata ad imporre le proprie condizioni a nuovi referenti.

Tuttavia la Corte di Assise di Firenze non ha mancato di rilevare in più

occasioni che la ricostruzione dei fatti offerta da Brusca in quel processo –

specie in ordine a quanto avvenne durante le discussioni

sull’organizzazione degli attentati fuori dall’Isola – tradisce chiaramente il

tentativo di sminuire il proprio ruolo nell’elaborazione della strategia

stragista (cfr. pagg. 1629 ss. della sentenza citata).

Questa valutazione dell’atteggiamento di Brusca sembra in realtà trovare

conferma anche in relazione alle vicende che interessano il presente

procedimento.

E difatti, alla luce delle dichiarazioni di altri collaboratori e del ruolo che il

Brusca ha mantenuto nell’organizzazione specie dopo l’arresto di Riina,

non può sfuggire come egli, pur avendo fatto ampia ammissione del suo

ruolo nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, mostra delle inspiegabili

reticenze circa le sue iniziative in ordine alla creazione di contatti

38

“politici” e ai suoi rapporti con Mangano.

Sul punto occorre subito esaminare le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza,

altro “uomo d’onore” di vertice nel mandamento di Porta Nuova.

7. Le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza

7.1 – Salvatore Cucuzza, che ha militato nella famiglia di Porta Nuova

anche dopo che Cancemi si è consegnato ai Carabinieri, ha confermato il

ruolo dello stesso Cancemi come reggente di quel mandamento per conto

di Pippo Calò e ha riferito che tale ruolo fu poi assegnato a Vittorio

Mangano.

Ha aggiunto di essere stato incaricato da Calò (che era detenuto) di far

sapere che egli non si sentiva adeguatamente rappresentato da Mangano e

di essersi incontrato con Brusca e Bagarella per portare questa ambasciata.

Ma Brusca e Bagarella insistettero perché fosse mantenuto il ruolo di

Mangano, assumendosene ogni responsabilità.

Cucuzza ha spiegato che questa predilezione per Mangano dipendeva dal

fatto che in “cosa nostra” tutta erano noti i suoi agganci “a livello

politico”, ai quali sia Brusca sia Bagarella tenevano molto e dei quali il

Mangano si era vantato anche con lui (“mi disse, quando sono uscito, che

aveva avuto degli agganci anche mesi prima che io uscissi con Dell’Utri…

e quindi aveva avuto assicurazioni che, insomma, si sarebbe interessato

per cosa nostra”). Si giunse allora al compromesso di una co-reggenza di

Mangano e Cucuzza; quest’ultimo posto al vertice del mandamento a

garanzia di Calò (verb. Ass. Firenze proc. c. Graviano Giuseppe + 3; ud.

18/5/1999, riconfermando quanto già narrato al P.M. di Firenze nel verb.

7/5/1997).

***

7.2 – Secondo Cucuzza, Vittorio Mangano riuscì a tenere stretti a sé

Brusca e Bagarella proprio in virtù di questi rapporti con Dell’Utri e non

assunse mai alcuna iniziativa senza tenerli informati. Ha raccontato di

avere appreso da Mangano che egli aveva lavorato presso la tenuta di

Arcore di Silvio Berlusconi e che lì aveva addirittura organizzato un

sequestro di persona ai danni del padre dell’imprenditore; questo sequestro

poi non riuscì, in quanto all’ultimo momento si cambiò obiettivo ma senza

successo. Berlusconi ai CC disse di non sospettare di Mangano, ma di lì a

poco lo mandò via; “però”, aggiunge Cucuzza, “ha paura, ecco, e quindi

si aggancia ad altre persone, per cui quando io sono poi in carcere, dei

soldi che mandava prima, all’anno, li percepiva prima dalla parte di

39

Bontate con Teresi (…) Quando invece poi io parlo in carcere per fargli

dare qualche cosa a lui, perché era stretto, cioè non aveva soldi Mangano,

ci dico: ‘Scusa li prendeva lui questi soldi, adesso li prendete voi, dateci

un qualche cosa a lui, a Mangano Vittorio’ e io lo dico a Giovan Battista

Pullarà, che era Pullarà che lo riceveva” (verb. P.M. Firenze 7/5/1997).

Questi finanziamenti di Berlusconi prima a Bontate, poi a Teresi, infine a

Pullarà, Cucuzza li ha contestualizzati a cavallo tra la fine degli anni “80 e

i primi anni “90.

Quando il 30/1/1994, Cucuzza venne scarcerato, tornò a parlare con

Mangano dei suoi rapporti con Dell’Utri; Mangano gli disse di essere

ancora in stretto contatto con lui e che grazie a lui “poteva influenzare

qualche cosa”, “di interesse naturalmente di cosa nostra” (verb. P.M.

Firenze 7/5/1997).

Brusca e Bagarella, per fargli comprendere la necessità di mantenere il

ruolo di Mangano, spiegarono a Cucuzza che, attraverso Dell’Utri,

Mangano aveva fatto conoscere in anticipo delle possibilità di ottenere una

disciplina favorevole a “cosa nostra” in relazione al noto decreto Biondi,

poi ritirato in seguito a delle polemiche politiche. Mangano inoltre faceva

sapere loro quali erano le indicazioni che provenivano da Dell’Utri e quali

le iniziative che egli avrebbe avviato in loro favore.

Per Mangano veniva tenuto in affitto un ufficio a Como, all’interno del

quale egli diceva anche di incontrare Dell’Utri che lo raggiungeva in

elicottero.

Secondo quanto riferitogli da Mangano, Dell’Utri mandava a dire: “Non

fate rumore, perché altrimenti ci mettete in una condizione di non potere

fare niente”; “Si, faremo, faremo, però stiamo attenti, non facciamo

succedere cose”. E aveva preannunciato che all’inizio del 1994 sarebbero

state adottate normative con aspetti più vantaggiosi per ‘cosa nostra’ (verb.

cit. 7/5/1997).

Quanto alla strategia stragista, Cucuzza ha indicato come propria fonte di

informazione il Brusca che gli avrebbe parlato dello scopo di ‘cosa nostra’

di portare lo Stato ad una trattativa e dell’impegno di Riina in questo

senso, profuso avvalendosi di persone che “aveva nelle mani”.

Brusca gli parlò anche di quadri da consegnare ad una persona che li

avrebbe utilizzati per accreditarsi come loro intermediario nei confronti

dello Stato, trattativa questa che poi fallì; a Cucuzza vennero mostrate le

foto di questi quadri, dopo il fallimento della trattativa, per verificare la

possibilità di venderli e ricavarne degli utili. (verb. cit. 7/5/1997).

***

40

7.3 – La versione di Cucuzza pertanto disegna per Brusca un ruolo ben più

importante nella gestione della fase stragista di “cosa nostra”; il

collaborante inoltre colloca nel luglio 1993 (epoca dell’arresto di Cancemi)

l’interesse di Brusca e Bagarella alla figura di Mangano, quale

intermediario con Dell’Utri, smentendo che la ricerca di questi contatti

fosse una soluzione di ripiego perseguita solo nel 1994 quando non vi

erano più altre strade.

Brusca, sentito nuovamente nel giudizio di appello per la strage di Capaci

(ud. 1/7/1999), ha cercato di coordinare quanto da lui in passato sostenuto

e quanto riferito da Cucuzza; ha in particolare affermato che Mangano fu

indicato da lui e da Bagarella come reggente di Porta Nuova dapprima

“per un problema di fiducia” e che poi “strada facendo”, dopo la lettura

del già citato articolo di stampa, decisero di servirsene per contattare

Dell’Utri.

Tuttavia non ha esplicitato quale fosse la specifica ragione di fiducia nei

confronti.

In ogni caso il profondo legame che intercorreva tra loro rende poco

credibile che lo stesso Brusca sia venuto a sapere occasionalmente da un

articolo di stampa dei rapporti di Mangano con Dell’Utri, già notori in

“cosa nostra” e dei quali lo stesso Mangano nell’ambiente criminale non

perdeva occasione di menare vanto.

Sul punto la ricostruzione di Cucuzza trova altre conferme nelle

dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che si esamineranno a breve.

8. Le dichiarazioni di Vincenzo La Piana

Vincenzo La Piana, collaboratore di giustizia dell’area palermitana che ha

confessato vari reati connessi al controllo mafioso delle attività

economiche e che ha mantenuto qualificati rapporti con il capomafia

Gerlando Alberti, ha riferito di conoscere da molto tempo Vittorio

Mangano e di essersi spesso rivolto a lui, contattandolo attraverso il

genero, tale “Enrico”, che era stato suo compagno di detenzione, per

ottenere l’“autorizzazione” a svolgere dei lavori nel suo territorio; ha

confermato in questo contesto che il “responsabile” di Porta Nuova era

proprio Mangano, che quest’ultimo aveva particolari rapporti preferenziali

con Brusca e che dopo il suo arresto il mandamento passò sotto la reggenza

di Salvatore Cucuzza (verbb. P.M. Milano in data 5/11/1997, in data

6/11/1997 e in data 14/11/1997, nonché verb. P.M. Milano, P.M. Torino e

P.M. Palermo in data 3/12/1997).

41

6.6 – Brusca, smentendo le dichiarazioni di Siino, ha sottolineato che, per

quanto a sua conoscenza, non vi era alcun collegamento tra gli attentati

alla “Standa” di Catania e queste trattative e ha sostenuto che avevano solo

finalità estorsive (verb.8/9/1998).

Nell’occasione del citato interrogatorio dell’8/9/1998 dinanzi ai P.M. di

Caltanissetta, su esplicita domanda, Brusca escluse di essere a conoscenza

di contributi in denaro versati dalla FININVEST a “cosa nostra”, pur

affermando che, per contro, non poteva neanche escludere che le notizie

fornite in questo senso da altri collaboratori potessero essere veridiche.

Successivamente, in data 21/9/1999, fu sentito su sua richiesta dai P.M. di

Firenze e rappresentò di aver ricordato che nel corso degli anni 82-83

Ignazio Pullarà, reggente della famiglia di Santa Maria di Gesù a partire

dall’arresto del fratello Giovan Battista, gli diceva che a Berlusconi e a

Canale 5 “gli faceva uscire i picciuli”, che venivano erogati con un

versamento mensile. Non gli spiegò mai a che titolo si facesse elargire

quelle somme, ma gli disse di essere subentrato in un rapporto già

instaurato da Stefano Bontade. Queste notizie sono state ribadite nel

verbale di interrogatorio ai P.M. nisseni del 26/6/1999.

In tale contesto, su domanda dell’Ufficio inquirente, Brusca ha pure

escluso di aver mai sentito parlare Riina di Berlusconi e Dell’Utri

nell’ambito delle riunioni tenutesi durante il 1992 per mettere a punto la

c.d. “strategia stragista”.

Sul punto il Brusca è stato particolarmente chiaro.

Ha affermato di conoscere le dichiarazioni di Cancemi in ordine alle

confidenze che avrebbe ricevuto da Riina sui contatti con Berlusconi e

dell’Utri, ha ammesso di aver partecipato con lui a due riunioni precedenti

alla strage di Capaci, ma ha comunque escluso che in quelle occasione si

fosse parlato dei due odierni indagati. Non ha invece escluso che in altre

occasioni Cancemi abbia potuto avere informazioni di quel tipo da Riina.

In ogni caso ha negato di aver assistito o partecipato, prima della sua

iniziativa con Mangano, ad attività che potevano coinvolgere Berlusconi o

Dell’Utri, anche perché il suo ruolo era strettamente legato al territorio di

Palermo (“non è stato mai per dire Berlusconi ha mandato questo,

Dell’Utri ha mandato questo, o c’è questo canale, alla mia presenza non

c’è mai stato perché (…) non ha niente a che fare con i problemi della

città, quindi sicuramente i discorsi sono stati fatti però io non ne so

nulla…”).

***

36

6.7 – Occorre evidenziare che il contributo di Brusca è stato positivamente

apprezzato dalla Corte di Assise di Caltanissetta in ordine alla

ricostruzione della fase deliberativa ed esecutiva delle stragi per cui si

procede.

Del pari positivo è stato l’apprezzamento della Corte di Assise di Firenze.

Bisogna evidenziare che i giudici fiorentini hanno ritenuto ampiamente

riscontrato l’episodio riferito da Brusca e inerente il c.d. “papello”, cioè le

richieste che Riina avrebbe rivolto ad alcuni organi istituzionali e che

avevano ad oggetto degli immediati benefici per gli “uomini d’onore” in

carcere e lo smantellamento della legislazione e delle pronunce giudiziarie

che avevano danneggiato “cosa nostra”. Si legge nelle motivazioni della

loro sentenza: “Brusca dice il vero quando afferma che la richiesta di

trattare, formulata da un organismo istituzionale a lui sconosciuto (oggi si

sa che erano gli uomini del ROS), indusse Riina a pensare (e a comunicare

ai suoi accoliti) che ‘quelli si erano fatti sotto’. Lo indusse cioè a ritenere

che le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, da poco avvenute, avevano

completamente disarmato gli uomini dello Stato; li avevano convinti

dell’invincibilità di ‘cosa nostra’; li avevano indotti a rinunciare all’idea

del ‘muro contro muro’ ed a fare sostanziali concessioni

all’organizzazione criminale cui apparteneva (…)” (sent.6/6/1998, p.

1547).

Ad avviso di quella Corte, invece, la stasi della trattativa aveva indotto

l’organizzazione mafiosa a mettere in esecuzione i successivi attentati del

1993, il cui metodo era stato già messo a punto e la cui esecuzione era stata

sospesa in attesa dell’esito della trattativa stessa.

La Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Via D’Amelio-ter” ha

invece ritenuto che non potesse con certezza considerarsi dimostrata

l’identità tra le trattative di cui ha parlato Brusca e i contatti tra i ROS e

Vito Ciancimino nell’ambito di una serie di iniziative finalizzate a

coinvolgere quest’ultimo come “agente sotto copertura” nel settore della

gestione illecita degli appalti, in cambio di benefici per la sua posizione

processuale.

Orbene, dopo il dibattimento di Firenze, Brusca ha ricollocato con

precisione la riunione in cui Riina gli parlò del “papello” e, come si è visto

nel precedente par. 6.2, ha affermato che essa avvenne in epoca

antecedente alla strage di Via D’Amelio (la sentenza della Corte di Assise

di Firenze riporta ancora che Brusca “circa l’epoca in cui apprese di

questa trattativa non si è rivelato sicuro”; p. 1540).

Il Magg. De Donno ha riferito di aver avviato contatti con Ciancimino

37

prima della strage di Via D’Amelio, ma gli incontri del Gen. Mori con l’ex

sindaco di Palermo, legato a “cosa nostra”, avvennero tra il 5 agosto e il 18

ottobre 1992.

La coincidenza temporale e il “ragionamento” del Brusca, a questo punto,

non sono sufficienti per considerare scontato che De Donno e Mori fossero

i personaggi che si erano “fatti sotto”, secondo l’acre espressione di Riina.

I termini della proposta offerta dagli ufficiali del ROS a Ciancimino –

ricostruibili oggi solo sulla base delle loro stesse testimonianze – ed il

contenuto del “papello” di cui parla Brusca e che riecheggia nelle

dichiarazioni di numerosi altri collaboratori non coincide; tanto più che

una delle condizioni dell’accordo perseguito dai ROS era la cattura di

Riina, cioè di colui il quale avrebbe predisposto il “papello” stesso.

Il fatto che Brusca non sia in grado di fornire indicazioni più precise non

consente di avvalorare né l’ipotesi, tenuta presente da ambedue le Corti,

che Ciancimino non riportasse fedelmente alle due parti i contenuti dei

colloqui intrattenuti con gli uomini di “cosa nostra” e con i ROS, né

l’ipotesi assai più suggestiva, avanzata solo dalla Corte di Firenze, che il

“papello” potesse essere stato affidato da Riina a Cinà (l’uomo di

collegamento con gli ambienti politici), il quale a sua volta lo avrebbe

tenuto per sé e non lo avrebbe fatto conoscere a Ciancimino in attesa di

verificare la “serietà” delle proposte della controparte.

In ogni caso, nessuna delle due Corti ha ritenuto inattendibile sul punto il

Brusca, ritenendo credibile che egli abbia appreso la notizia della trattativa

da Riina e ritenendo comunque riscontrata una complessiva strategia di

“cosa nostra” finalizzata ad imporre le proprie condizioni a nuovi referenti.

Tuttavia la Corte di Assise di Firenze non ha mancato di rilevare in più

occasioni che la ricostruzione dei fatti offerta da Brusca in quel processo –

specie in ordine a quanto avvenne durante le discussioni

sull’organizzazione degli attentati fuori dall’Isola – tradisce chiaramente il

tentativo di sminuire il proprio ruolo nell’elaborazione della strategia

stragista (cfr. pagg. 1629 ss. della sentenza citata).

Questa valutazione dell’atteggiamento di Brusca sembra in realtà trovare

conferma anche in relazione alle vicende che interessano il presente

procedimento.

E difatti, alla luce delle dichiarazioni di altri collaboratori e del ruolo che il

Brusca ha mantenuto nell’organizzazione specie dopo l’arresto di Riina,

non può sfuggire come egli, pur avendo fatto ampia ammissione del suo

ruolo nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, mostra delle inspiegabili

reticenze circa le sue iniziative in ordine alla creazione di contatti

38

“politici” e ai suoi rapporti con Mangano.

Sul punto occorre subito esaminare le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza,

altro “uomo d’onore” di vertice nel mandamento di Porta Nuova.

7. Le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza

7.1 – Salvatore Cucuzza, che ha militato nella famiglia di Porta Nuova

anche dopo che Cancemi si è consegnato ai Carabinieri, ha confermato il

ruolo dello stesso Cancemi come reggente di quel mandamento per conto

di Pippo Calò e ha riferito che tale ruolo fu poi assegnato a Vittorio

Mangano.

Ha aggiunto di essere stato incaricato da Calò (che era detenuto) di far

sapere che egli non si sentiva adeguatamente rappresentato da Mangano e

di essersi incontrato con Brusca e Bagarella per portare questa ambasciata.

Ma Brusca e Bagarella insistettero perché fosse mantenuto il ruolo di

Mangano, assumendosene ogni responsabilità.

Cucuzza ha spiegato che questa predilezione per Mangano dipendeva dal

fatto che in “cosa nostra” tutta erano noti i suoi agganci “a livello

politico”, ai quali sia Brusca sia Bagarella tenevano molto e dei quali il

Mangano si era vantato anche con lui (“mi disse, quando sono uscito, che

aveva avuto degli agganci anche mesi prima che io uscissi con Dell’Utri…

e quindi aveva avuto assicurazioni che, insomma, si sarebbe interessato

per cosa nostra”). Si giunse allora al compromesso di una co-reggenza di

Mangano e Cucuzza; quest’ultimo posto al vertice del mandamento a

garanzia di Calò (verb. Ass. Firenze proc. c. Graviano Giuseppe + 3; ud.

18/5/1999, riconfermando quanto già narrato al P.M. di Firenze nel verb.

7/5/1997).

***

7.2 – Secondo Cucuzza, Vittorio Mangano riuscì a tenere stretti a sé

Brusca e Bagarella proprio in virtù di questi rapporti con Dell’Utri e non

assunse mai alcuna iniziativa senza tenerli informati. Ha raccontato di

avere appreso da Mangano che egli aveva lavorato presso la tenuta di

Arcore di Silvio Berlusconi e che lì aveva addirittura organizzato un

sequestro di persona ai danni del padre dell’imprenditore; questo sequestro

poi non riuscì, in quanto all’ultimo momento si cambiò obiettivo ma senza

successo. Berlusconi ai CC disse di non sospettare di Mangano, ma di lì a

poco lo mandò via; “però”, aggiunge Cucuzza, “ha paura, ecco, e quindi

si aggancia ad altre persone, per cui quando io sono poi in carcere, dei

soldi che mandava prima, all’anno, li percepiva prima dalla parte di

39

Bontate con Teresi (…) Quando invece poi io parlo in carcere per fargli

dare qualche cosa a lui, perché era stretto, cioè non aveva soldi Mangano,

ci dico: ‘Scusa li prendeva lui questi soldi, adesso li prendete voi, dateci

un qualche cosa a lui, a Mangano Vittorio’ e io lo dico a Giovan Battista

Pullarà, che era Pullarà che lo riceveva” (verb. P.M. Firenze 7/5/1997).

Questi finanziamenti di Berlusconi prima a Bontate, poi a Teresi, infine a

Pullarà, Cucuzza li ha contestualizzati a cavallo tra la fine degli anni “80 e

i primi anni “90.

Quando il 30/1/1994, Cucuzza venne scarcerato, tornò a parlare con

Mangano dei suoi rapporti con Dell’Utri; Mangano gli disse di essere

ancora in stretto contatto con lui e che grazie a lui “poteva influenzare

qualche cosa”, “di interesse naturalmente di cosa nostra” (verb. P.M.

Firenze 7/5/1997).

Brusca e Bagarella, per fargli comprendere la necessità di mantenere il

ruolo di Mangano, spiegarono a Cucuzza che, attraverso Dell’Utri,

Mangano aveva fatto conoscere in anticipo delle possibilità di ottenere una

disciplina favorevole a “cosa nostra” in relazione al noto decreto Biondi,

poi ritirato in seguito a delle polemiche politiche. Mangano inoltre faceva

sapere loro quali erano le indicazioni che provenivano da Dell’Utri e quali

le iniziative che egli avrebbe avviato in loro favore.

Per Mangano veniva tenuto in affitto un ufficio a Como, all’interno del

quale egli diceva anche di incontrare Dell’Utri che lo raggiungeva in

elicottero.

Secondo quanto riferitogli da Mangano, Dell’Utri mandava a dire: “Non

fate rumore, perché altrimenti ci mettete in una condizione di non potere

fare niente”; “Si, faremo, faremo, però stiamo attenti, non facciamo

succedere cose”. E aveva preannunciato che all’inizio del 1994 sarebbero

state adottate normative con aspetti più vantaggiosi per ‘cosa nostra’ (verb.

cit. 7/5/1997).

Quanto alla strategia stragista, Cucuzza ha indicato come propria fonte di

informazione il Brusca che gli avrebbe parlato dello scopo di ‘cosa nostra’

di portare lo Stato ad una trattativa e dell’impegno di Riina in questo

senso, profuso avvalendosi di persone che “aveva nelle mani”.

Brusca gli parlò anche di quadri da consegnare ad una persona che li

avrebbe utilizzati per accreditarsi come loro intermediario nei confronti

dello Stato, trattativa questa che poi fallì; a Cucuzza vennero mostrate le

foto di questi quadri, dopo il fallimento della trattativa, per verificare la

possibilità di venderli e ricavarne degli utili. (verb. cit. 7/5/1997).

***

40

7.3 – La versione di Cucuzza pertanto disegna per Brusca un ruolo ben più

importante nella gestione della fase stragista di “cosa nostra”; il

collaborante inoltre colloca nel luglio 1993 (epoca dell’arresto di Cancemi)

l’interesse di Brusca e Bagarella alla figura di Mangano, quale

intermediario con Dell’Utri, smentendo che la ricerca di questi contatti

fosse una soluzione di ripiego perseguita solo nel 1994 quando non vi

erano più altre strade.

Brusca, sentito nuovamente nel giudizio di appello per la strage di Capaci

(ud. 1/7/1999), ha cercato di coordinare quanto da lui in passato sostenuto

e quanto riferito da Cucuzza; ha in particolare affermato che Mangano fu

indicato da lui e da Bagarella come reggente di Porta Nuova dapprima

“per un problema di fiducia” e che poi “strada facendo”, dopo la lettura

del già citato articolo di stampa, decisero di servirsene per contattare

Dell’Utri.

Tuttavia non ha esplicitato quale fosse la specifica ragione di fiducia nei

confronti.

In ogni caso il profondo legame che intercorreva tra loro rende poco

credibile che lo stesso Brusca sia venuto a sapere occasionalmente da un

articolo di stampa dei rapporti di Mangano con Dell’Utri, già notori in

“cosa nostra” e dei quali lo stesso Mangano nell’ambiente criminale non

perdeva occasione di menare vanto.

Sul punto la ricostruzione di Cucuzza trova altre conferme nelle

dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che si esamineranno a breve.

8. Le dichiarazioni di Vincenzo La Piana

Vincenzo La Piana, collaboratore di giustizia dell’area palermitana che ha

confessato vari reati connessi al controllo mafioso delle attività

economiche e che ha mantenuto qualificati rapporti con il capomafia

Gerlando Alberti, ha riferito di conoscere da molto tempo Vittorio

Mangano e di essersi spesso rivolto a lui, contattandolo attraverso il

genero, tale “Enrico”, che era stato suo compagno di detenzione, per

ottenere l’“autorizzazione” a svolgere dei lavori nel suo territorio; ha

confermato in questo contesto che il “responsabile” di Porta Nuova era

proprio Mangano, che quest’ultimo aveva particolari rapporti preferenziali

con Brusca e che dopo il suo arresto il mandamento passò sotto la reggenza

di Salvatore Cucuzza (verbb. P.M. Milano in data 5/11/1997, in data

6/11/1997 e in data 14/11/1997, nonché verb. P.M. Milano, P.M. Torino e

P.M. Palermo in data 3/12/1997).

41

Link to post
Share on other sites

Ha pure riferito che, dopo l’arresto di Mangano, egli effettuò dei viaggi

con l’”Enrico” al fine di attivare personaggi influenti i quali avrebbero

dovuto propiziare quantomeno un trasferimento dello stesso in un carcere

diverso da quello di Pianosa, dove il suo stato di detenzione si era fatto

troppo gravoso; ha raccontato in particolare di un viaggio in auto verso

Milano, durante il quale “Enrico” gli disse che sarebbero andati a parlare

con “Dell’Utri”; non gli disse il nome di battesimo di quello che sarebbe

stato il loro interlocutore.

Ha poi narrato l’incontro che ne seguì, avvenuto insieme ad altre persone

in un ristorante nei pressi di Piazzale Corvetto a Milano, conclusosi con la

promessa del Dell’Utri che avrebbe visto il da farsi, aggiungendo: “datemi

qualche giorno di tempo, ci teniamo in contatto”. In epoca successiva

“Enrico” aveva contattato il Dell’Utri con il suo telefono cellulare, del

quale La Piana non ha saputo indicare il numero.

La Piana ebbe poi a chiedere ad “Enrico” degli effetti del promesso

interessamento da parte di Dell’Utri, ma gli fu risposto che i problemi si

stavano aggravando perché la vicenda di Mangano aveva avuto

progressiva notorietà ed era sempre più difficile intervenire.

9. Le dichiarazioni di Tullio Cannella

9.1 – Con gradualità anche il collaboratore di giustizia Tullio Cannella ha

parlato di una strategia di cosa nostra attuata tra il 1992 e il 1993 per

realizzare un nuovo assetto politico-istituzionale in Italia.

Come peraltro documentalmente accertato, Cannella fondò nell’ottobre

1993 il movimento “Sicilia Libera” a Palermo. Egli ha riferito (verb. P.M.

Palermo 1/8/1995) che Bagarella si interessò subito a questo movimento e

gli disse di rimanere a disposizione; promise appoggio per un loro

candidato alle elezioni comunali, attraverso uomini vicini alla “famiglia”

di Brancaccio, ma senza alcun utile esito; inoltre lo stesso Bagarella lo

mise in contatto con persone di Trapani e di Catania per la preparazione

delle liste per le elezioni politiche nazionali.

Cannella ha aggiunto che successivamente Antonino Calvaruso

(amministratore del villaggio “Euromare”, formalmente intestato allo

stesso Cannella che era in realtà mero prestanome dei Graviano) gli fece

sapere che Brusca e Bagarella avevano deciso di appoggiare “Forza Italia”.

Calvaruso, anch’egli collaboratore di giustizia, sentito dal P.M. di Palermo

in data 25/1/1996, ha sostanzialmente confermato tali circostanze; si è

detto a conoscenza degli interessi di Bagarella per “Sicilia Libera”,

42

spiegando che, dopo l’arresto di Riina, lo stesso Bagarella gli aveva detto

di non avere “agganci politici” se non quelli che gli curavano i Graviano di

Brancaccio e sui quali non gli riferì niente di preciso.

In proposito occorre segnalare che Giuseppe e Filippo Graviano erano

all’epoca latitanti nel milanese, furono catturati il 28/1/1994 all’interno di

una trattoria del capoluogo lombardo e nell’occasione furono arrestati

alcuni soggetti che ne favorivano la latitanza; tra questi il palermitano

Giuseppe D’Agostino, del quale si accertava che si trovava a Milano

perché nutriva aspettative in ordine all’ingaggio del figlio nelle squadre

giovanili del Milan.

Calvaruso, dopo aver visto Bagarella adoperarsi nel 1993 per “Sicilia

Libera”, si accorse che nel 1994 se ne disinteressò del tutto; egli dedusse

che si era orientato a sostenere “Forza Italia”.

***

9.2 – Successivamente nell’interrogatorio del 28/5/1997, ma, in maniera

ancora più approfondita, in quello del 17/7/1997 dinanzi ai P.M. di

Palermo, Firenze e Caltanissetta, Cannella ha reso dichiarazioni più ampie

in ordine alla strategia di ‘cosa nostra’ nella ricerca di nuovi interlocutori

politici, sostenendo che già nel periodo in cui nasceva “Sicilia Libera”

venivano battute altre strade.

“Bagarella – ha riferito Cannella – era già perfettamente a conoscenza

che era in cantiere la discesa in campo di Silvio Berlusconi a capo di un

nuovo movimento politico che ci avrebbe assicurato, in virtù di impegni

preesistenti, di risolvere le questioni che più stavano a cuore a cosa nostra

e cioè: pentiti, carcere duro e reato di associazione mafiosa. Chiarisco

che queste erano, per così dire, le priorità che l’accordo con Berlusconi ci

avrebbe consentito a breve termine di affrontare e risolvere. Questa

strategia non escludeva, anzi camminava di pari passo con quella

separatista di cui ho già parlato, che era caldeggiata principalmente da

Bagarella e da Nitto Santapaola a Catania tramite Alfio Fichera, ma per

la quale si prevedeva una realizzazione solo in un futuro non immediato.”

Cannella ha insistito sugli impegni preesistenti di Berlusconi con uomini di

cosa nostra, sottolineando che l’accordo era stato coltivato dai fratelli

Graviano per conto di tutta quanta l’organizzazione negli anni 1991-1992.

Di questo venne a conoscenza grazie alle confidenze di Bagarella. Fu

sempre Bagarella a dirgli che “a Roma si era costituito un ottimo rapporto

con il costruttore Franco Caltagirone, a sua volta in rapporto con Giulio

Andreotti. Dico meglio, i Graviano avevano ripreso un vecchio rapporto

che il Caltagirone aveva avuto con cosa nostra sin dai tempi di Stefano

43

Bontade. A Milano i rapporti, sempre per quanto dettomi da Bagarella e

confermatomi da Cesare Lupo (…), erano stati costituiti da Marcello

Dell’Utri con cui i Graviano si incontravano personalmente (…).

La nascita ed il consolidarsi delle relazioni di cui ho appena detto

concretizzò definitivamente un rapporto di amicizia e di collaborazione su

tutti i fronti con Dell’Utri e conseguentemente con Berlusconi. Questa non

è solo una mia deduzione ma fu oggetto di numerose conversazioni con

Leoluca Bagarella, oltre che con altri uomini di cosa nostra”.

Cannella ha poi parlato di una serie di attività svolte da uomini di cosa

nostra al fine di sostenere Berlusconi nella competizione elettorale del

1994 e ha detto che Calvaruso gli riferì che Giovanni Brusca si stava

impegnando in questo senso.

In proposito Brusca ha negato un proprio diretto impegno in campagna

elettorale finalizzato a coinvolgere e ad impegnare la cosca e Calvaruso,

nel verbale sopra citato, ha affermato che la sua fu più una deduzione che

non il risultato di una diretta esperienza.

Tuttavia la circostanza – riferita pure da Angelo Siino – ha trovato

conferma nelle dichiarazioni di un collaborante molto vicino allo stesso

Brusca, Giuseppe Monticciolo, che nell’interrogatorio del 6/6/1996 al P.M.

di Palermo parlò del diretto impegno del boss di San Giuseppe Jato, il

quale apprezzava alcuni esponenti di “Forza Italia”, impegnati anche in

una battaglia contro il c.d. “41bis”. Monicciolo ha ricordato che Brusca

sollecitava i suoi ad appoggiare questa nuova formazione politica,

cercando voti “a panza ‘n terra”.

A seguito delle propalazioni di Monticciolo e di altri collaboranti, Brusca

ha ammesso di essersi in qualche modo impegnato in questo senso: “ci

sono molti collaboranti che dicono che io ho fatto votare Forza Italia, ed è

vero, ma ho fatto votare Forza Italia solo ed esclusivamente per andare

contro la sinistra, per un fatto ideologico mio…” (Verb. P.M. Caltanissetta

8/9/1998). Ha tuttavia negato di aver coinvolto l’intero suo mandamento e

i suoi alleati come invece nello stesso periodo fece Mangano.

Le più incisive e convergenti affermazioni degli altri collaboratori si

uniscono al fatto che non sembra pensabile che Mangano e Brusca così

vicini nell’organizzazione avessero due linee di condotta diverse; e ciò fa

ritenere che anche in questa occasione Brusca sia proteso a ridimensionare

le sue iniziative in relazione alla coltivazione di rapporti politici.

***

9.3 – Cannella ha ricordato ancora un altro episodio significativo: “quando

Berlusconi tenne l’ultimo comizio della sua campagna elettorale a

44

Palermo presso la Fiera del Mediterraneo, io ero presente su incarico di

Bagarella. Riferii, poi, allo stesso Bagarella di una frase di Berlusconi in

cui si manifestava un vago proposito di utilizzare i voti ‘contro la

delinquenza’. Bagarella mi disse che era una frase ‘obbligata’ per

l’opinione pubblica e per i giornalisti, dato che era stato contestato al

Berlusconi che non parlava mai di mafia; ma in quella stessa occasione mi

assicurò, ancora una volta, che lo stesso aveva preso ‘impegni seri’ con

noi intendendo con tutta cosa nostra”.

Le vicende così sintetizzate da Cannella sono state approfondite in seguito

alle specifiche domande rivoltegli dal P.M. nell’interrogatorio del

7/11/1997. Ha affermato Cannella a proposito delle informazioni da lui

apprese circa gli accordi tra cosa nostra e Berlusconi, e poi circa i contatti

curati dai Graviano:

“nel gennaio 1994, mentre ci trovavamo presso il mio studio ubicato a

Palermo, via Nicolò Gallo n. 14, ove Leoluca Bagarella con frequenza

quasi quotidiana soleva raggiungermi, avevo un colloquio con

quest’ultimo (…). Nell’occasione chiedevo al mio interlocutore come mai

‘cosa nostra’ si era determinata a commettere le stragi in Sicilia nel 92 e

quelle successive nel continente nel 1993 e quali garanzie avevano avuto

loro dal mondo politico e istituzionale per evitare le prevedibili

conseguenze negative ricollegabili a tali fatti eclatanti (…).

A fronte di tale mio articolato ragionamento, il Bagarella replicò, per

tranquillizzarmi, dicendomi di non preoccuparmi perché avevano avuto

‘delle garanzie’ e che si trattava solo di vedere se gli impegni presi

sarebbero stati mantenuti subito dopo le elezioni. Non mi precisò, in

questa sede, da chi erano state date le garanzie, ma mi assicurò che,

comunque, ‘l’operazione era stata studiata bene’ e che vi era la possibilità

di accollare le stragi a organismi terroristici del tipo ‘Falange Armata’.

Evidenzio che in quell’occasione non vi era nessuna altra persona

presente”

Cannella null’altro di più specifico avrebbe saputo sugli accordi di cui gli

parlò Bagarella.

Quest’ultimo gli disse pure genericamente che i Graviano avevano dei

legami con Caltragirone e con Dell’Utri, ma che li avevano gestiti

“sconfinando”, senza aggiungere nient’altro di più preciso.

***

9.4 – Una delle fonti del collaboratore è indicata in Cesare Lupo; il suo

spessore criminale anche all’interno di “cosa nostra” e i rapporti di

quest’ultimo con i Graviano, dei quali ha agevolato la latitanza tra la fine

45

del 1992 e il 1993, sono stati oggetto di approfonditi accertamenti

investigativi (cfr. la scheda dela DIA di Palermo in data 20/11/1998,

nonché i numerosi provvedimenti giudiziari che lo riguardano, contenuti

nel faldone 3/A, carpetta A).

Appare evidente che le dichiarazioni di Cannella segnano una progressione

che può destare qualche sospetto alla luce del comportamento da lui tenuto

in un altro procedimento, i cui atti sono stati scrupolosamente acquisiti dal

P.M., e che riguarda delle accuse “de relato” da lui formulate a carico del

dott. Croce dopo una serie di incontri con altri collaboratori e con la

finalità di accreditarsi dinanzi alle Autorità inquirenti (cfr. decreto di

archiviazione del GIP di Caltanissetta del 6/7/1999).

Va tuttavia rilevato che, sulla vicenda del sostegno di “cosa nostra” a

“Sicilia Libera” e successivamente dell’opzione di sostenere invece il

movimento “Forza Italia”, si sono raggiunti sufficienti elementi di

conferma in forza delle dichiarazioni di numerosi altri collaboratori di

giustizia, le cui assoluta convergenza sul punto è stata tra l’altro già

evidenziata dalla Corte di Assise di Caltanissetta nella sentenza più volte

citata relativa alla strage di Via D’Amelio.

Restano ancora vaghe le dichiarazioni, peraltro tardive, circa la sussistenza

di accordi pregressi tra Bagarella e i promotori del movimento poi

denominatosi “Forza Italia”, dichiarazioni queste che avrebbero ben

maggiore rilievo per sostenere l’ipotesi accusatoria del presente

procedimento.

10. Le dichiarazioni di Gioacchino Pennino

Pennino ha reso dichiarazioni con le quali ha riferito di notizie apprese

all’interno di ‘cosa nostra’ e da soggetti qualificati in ordine ai rapporti

intrattenuti da Mangano con Berlusconi e dai Graviano con Dell’Utri

(verb. 3/3/1998).

Specificamente interrogato sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio in data

13/3/1998, Pennino ha escluso di essere a conoscenza di fatti specifici,

mentre ha sottolineato di aver appreso da due fonti che Silvio Berlusconi

era il mandante delle stragi del 1993: la prima fonte si identificava nel

dottore Giuseppe Ciaccio, uomo d’onore di una ‘famiglia’ dell’agrigentino,

di professione radiologo; la seconda era Pinuzzo Marsala, uomo d’onore

della ‘famiglia’ di Santa Maria di Gesù.

Dalle indagini del gruppo “Falcone e Borsellino” (nota in data 17/6/1998),

è emerso che Giuseppe Ciaccio era effettivamente un radiologo, già

46

residente a Palermo, ma di origine agrigentina, fin dal 1974 sottoposto ad

accertamenti anche in seguito alle dichiarazioni del collaboratore Leonardo

Vitale che lo indicò come affiliato a “cosa nostra”. Egli era deceduto il

2/8/1995 (su Ciaccio cfr. pure nota DIA in data 11/11/1998).

Del pari deceduto l’altro soggetto che avrebbe fornito notizie a Pennino,

Giuseppe Marsala. Già sottoposto a procedimento penale, ma poi

prosciolto per favoreggiamento a beneficio di Bonura Luigi, all’epoca

indagato per detenzione e spaccio di stupefacenti, Marsala risultava avere

contatti frequenti con il Sen. Vincenzo Inzerillo e con il Sen. Cerami,

personaggi indicati da vari collaboratori di giustizia come interlocutori di

esponenti di “cosa nostra”; in data 5/4/1997, Marsala si suicidò lanciandosi

dal balcone della propria abitazione. In data 15/12/1997, Marsala era stato

sottoposto a custodia cautelare in forza di provvedimento del GIP di

Palermo basato sulle dichiarazioni di Pennino e sui riscontri raccolti dagli

investigatori; i familiari riferirono dopo il suicidio che, in seguito

all’emissione di quel provvedimento, Giuseppe Marsala era caduto in

depressione.

Le dichiarazioni di Pennino, oggetto dell’odierna valutazione, sono “de

relato” e del tutto generiche; l’impossibilità di escutere le fonti di esse,

l’insussistenza di elementi per giungere a ricavare quali fossero le

circostanze per cui Ciaccio e Marsala potevano essere a conoscenza di tali

fatti, la mancanza di elementi idonei a prefigurare in capo a costoro un

ruolo criminale di tale levatura da accedere a queste informazioni rendono

del tutto inutilizzabili le propalazioni in esame.

11. Le dichiarazioni di Maurizio Avola

11.1 – Maurizio Avola, collaboratore di giustizia già appartenente alla

“famiglia” Santapaola di Catania (i suoi legami con Aldo Ercolano e Nitto

Santapaola erano stati già ampiamente accertati dall’AG di Catania prima

della sua collaborazione), sentito dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel

proc. c. Agate Mariano + 26 per la strage di via D’Amelio (ud. 9/4/1999),

ha dichiarato di essere stato in contatto stabile con Marcello D’Agata e

attraverso questi ed altri affiliati del gruppo catanese con “cosa nostra”

palermitana. Ha detto di aver contribuito alla preparazione di attentati che

si sarebbero dovuti eseguire a Firenze tra il 1992 e il 1993. Sul punto le

sue dichiarazioni sono state confermate dagli accertamenti del P.M. che

hanno riscontrato una presenza di Avola a Firenze nel maggio 1992 (nota

DIA del 23/10/1999) e sono state valorizzate nella sentenza della Corte di

47

Assise di Firenze, più volte citata.

Ha riferito che nel mese di settembre del 1992 si tenne una riunione a

Catania, zona Zia Lisa, dove trascorreva la latitanza Nitto Santapaola; vi

parteciparono Riina, Eugenio Gallea, Marcello D’Agata, Aldo Ercolano,

Alfio Fichera e lo stesso Avola. Si discusse della nascita di un partito

nuovo: in proposito Gallea che aveva partecipato poco tempo prima ad

un’altra riunione tenutasi nell’ennese “portava come novità che erano nate

delle alleanze, che doveva nascere questo partito nuovo e … si dovevano

creare visi nuovi”. D’Agata era diffidente, ma Gallea dava assicurazioni

del fatto che la cosa era gestita personalmente da Riina.

Lo scopo era quello di frenare le iniziative giudiziarie e legislative che

avevano fortemente intaccato il potere di “cosa nostra” e che erano state

scandite dall’esito del maxiprocesso, dalla disciplina a favore delle

collaborazioni con la giustizia e poi dal regime penitenziario instaurato dal

noto art.41bis O.P.

Avola ha affermato di aver appreso da D’Agata che per sostenere il nuovo

partito era necessario portare avanti un attacco violento allo Stato e questo

attacco era stato delegato a “cosa nostra” già all’inizio del 1992, prima

delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Nulla seppe su quale fosse tale

partito nuovo; nel 1994, mentre era detenuto, apprese dalla moglie che gli

esponenti di “cosa nostra” avevano ordinato agli affiliati di votare “Forza

Italia”.

Ha anche parlato del fatto che vi fu tra la fine del 1992 e i primi del 1993

una riunione in un albergo romano (l’”Excelsior”), alla quale parteciparono

D’Agata, Gallea e Pacini Battaglia e nella quale fu deciso che “cosa

nostra” avrebbe provveduto all’eliminazione fisica di Antonio Di Pietro

per fare un favore a Bettino Craxi. Avola ne venne a conoscenza perché fu

designato quale componente del commando.

Il P.M. ha disposto accertamenti per verificare se le persone indicate da

Avola avessero soggiornato contestualmente all’hotel “Excelsior” di Roma

tra il 1992 e il 1993 e l’esito è stato negativo (nota DIA del 23/10/1999).

Non si è acquisita pertanto alcuna conferma della circostanza, ma

l’accertamento non vale come smentita in quanto l’incontro non era

necessariamente ricollegato al pernottamento nell’albergo di tutti gli

astanti.

Va tuttavia ricordato che anche Brusca ha riferito di un progetto dei

catanesi di uccidere Di Pietro, illustratogli da Eugenio Gallea (ud. Corte di

Assise di Appello di Caltanissetta 1/7/1999).

***

48

11.2 – Dopo la pubblica escussione dibattimentale nel processo c.d. “Via

D’Amelio ter”, Avola chiese di essere sentito dal P.M. di Messina e, nel

corso dell’interrogatorio del 25/5/1999, affermò di voler rendere

dichiarazioni circa la “strategia” che condusse alle stragi di Capaci e di Via

D’Amelio, nonché a quelle successive commesse nel Nord-Italia, e

sostenne che tale “strategia” aveva un punto di riferimento nella città dello

Stretto.

“Tutto deriva dai contatti fra Alfano e Dell’Utri. – disse Avola riferendo

fatti del tutto nuovi – A Messina alla fine del 1991, ci sono stati degli

incontri cui hanno partecipato Alfano, Sparacio, Dell’Utri ed alcuni

uomini d’onore della famiglia catanese di cosa nostra”.

Di Michelangelo Alfano, Avola dichiarò che, dopo gli attentati alla

“Standa” di Catania (quelli di cui hanno parlato Brusca e Siino con

differenti versioni in ordine al loro movente), egli fece da mediatore per

conto della famiglia catanese con Marcello Dell’Utri e allacciò con lui un

rapporto diretto

Dopo quegli incontri, ed in particolare dopo una riunione avvenuta alla

fine del 1991 a Messina tra Marcello D’Agata, Eugenio Gallea, Santo

Battaglia, Alfano, Sparacio e Dell’Utri, il collaboratore sarebbe venuto a

sapere da D’Agata che “cosa nostra” voleva consentire ad una forza

politica nuova di assumere posizioni di potere, affinchè la rappresentasse

in luogo dei precedenti referenti politici che l’avevano tradita; il progetto

prevedeva l’eliminazione di personaggi pubblici particolarmente

rappresentativi tra politici e magistrati.

Successivamente nel febbraio-marzo 1992 ebbe luogo la riunione di “Zia

Lisa”, di cui Avola aveva prima parlato alla Corte di Assise nissena,

collocandola invece nel settembre 1992, cioè in epoca successiva alle

stragi di via D’Amelio e di Capaci.

Il collaboratore spiegò la sua nuova versione, dicendo che sino ad allora

aveva taciuto alcune circostanze e aveva falsamente datato la riunione di

“Zia Lisa” per il timore di essere coinvolto nella strage di Capaci.

Affermò che dopo l’incontro di Messina tra esponenti di “cosa nostra” e

nuovi referenti della politica vi era stata una riunione ad Enna, alla quale

avevano partecipato Gallea e tutti i rappresentanti provinciali di “cosa

nostra” per discutere del progetto di sostegno alla nascente forza politica.

Gallea a “Zia Lisa” portò poi il resoconto del “summit” ennese.

Avola aggiunse che già dai primi mesi del 1992 Falcone era stato

individuato come obiettivo e D’Agata gli aveva detto che era in corso la

fase preparatoria dell’attentato. Avola sostenne inoltre che in quel periodo

49

curò il trasporto di un certo quantitativo di esplosivo insieme a D’Agata da

Catania a Termini Imerese con la consapevolezza che sarebbe servito alla

strage di Capaci. Disse di essere stato contattato per far parte del

commando ma che poi non vi partecipò.

I rapporti tra Alfano e Dell’Utri, i contatti tra i due al fine di sostenere una

nuova formazione politica e le riunioni avvenute a Messina, di cui ha

parlato Avola, sono stati confermati dal collaborante Luigi Sparacio, ma in

una complessiva ricostruzione per molti versi generica e non scevra di

contraddizioni (cfr. verb. 1/4/1999 P.M. Messina).

***

11.3 – A seguito di queste nuove propalazioni di Avola sui temi del

presente procedimento, il P.M. nisseno lo convocò in data 25/9/1999 per

interrogarlo sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, ma egli, dopo aver

lamentato varie disfunzioni verificatesi nei rapporti tra i suoi familiari e il

Servizio Centrale di Protezione, si avvalse della facoltà di non rispondere e

dichiarò di non voler più collaborare con la giustizia.

Un rapporto della Direzione della Casa Circondariale di Pescara in data

21/10/1999 segnalò che egli si era rifiutato di farsi tradurre per un altro

interrogatorio e aveva manifestato la volontà di interrompere la sua

collaborazione sempre in relazione alle sue insoddisfazioni circa il tipo di

trattamento che stavano subendo i suoi familiari; aveva pure affermato che

non voleva più avvalersi dei benefici del programma di protezione e che

alcune delle dichiarazioni da lui precedentemente rese erano totalmente

false.

Presto Avola riprese la sua collaborazione e spiegò alla Corte di Assise di

Catania (verb. ud. 18/11/1999, proc. c. Ercolano Aldo + 4) che il suo

precedente atteggiamento era stato dovuto ad un momento di sconforto, ma

che egli aveva poi deciso di fare uscire i suoi familiari dal programma di

protezione e di continuare a collaborare con lo Stato senza chiedere

alcunchè; in quella occasione affermò che tutto quanto aveva dichiarato in

passato rispondeva a verità.

Il 22/7/2000 il P.M. interrogò nuovamente Avola, il quale stavolta si disse

disponibile a rispondere. Il P.M. gli chiese spiegazioni su quanto aveva

riferito al P.M. di Messina il 25/5/1999 e Avola confermò la versione resa

in quell’occasione e puntualizzò:

“I primi progetti erano di colpire in alta Italia, non toccare la Sicilia con

le stragi (…) Poi i palermitani hanno deciso così, di dare questo (…)

colpo di mano”.

Spiegò così il fatto che egli era andato a Firenze a svolgere dei

50

sopralluoghi in epoca antecedente alla strage di Capaci.

La strategia era motivata dal fatto che “stava nascendo questo… partito e

si doveva appoggiare questa forza politica nuova che poi doveva aiutare

un po’ tutta la situazione di cosa nostra”.

Avola identificò la nuova formazione politica nel movimento “Forza

Italia”.

“P.M.: Ma lei si riferisce a Forza Italia perché lo deduce da quello che è

successo dopo o perché le venne detto ad un certo punto… (…)

AVOLA: … è mia moglie che me lo conferma al colloquio, perché il

D’Agata mi manda a dire che se il partito, il partito era nato…io sto

parlando già del 1993… il partito era nato e tutti sti pentiti ce li legavamo

alle caviglie e non ti preoccupare che Maurizio… esce con i suoi piedi!

(…) Era fine ’93.”

Il messaggio tranquillizzante gli era stato fatto arrivare per distoglierlo da

un progetto di evasione che Avola stava mettendo a punto con altri

codetenuti e che poteva risultare inutile alla luce delle ulteriori evoluzioni.

***

11.4 – Orbene le dichiarazioni di Avola, secondo quanto egli stesso

afferma, si basano prevalentemente sulle confidenze di D’Agata, dal quale

avrebbe attinto tutte le notizie in ordine al ruolo di Dell’Utri, ai contatti

con la famiglia catanese, alla strategia “stragista” di cosa nostra e agli

accordi sul punto tra famiglie catanesi e famiglie palermitane.

Trattasi pertanto di dichiarazioni “de relato”, che, per avere valenza

probatoria, occorrono di elementi di riscontro particolarmente robusti.

Peraltro proprio i contenuti delle propalazioni di Avola che hanno

maggiore rilievo per il presente procedimento non sono state affatto

costanti e sono segnate dalla strana iniziativa di riferire i fatti che

coinvolgono gli odierni indagati ai P.M. di Messina e non a quelli che lo

avevano sino ad allora interrogato, nonché dalla successiva ritrattazione e

quindi dalla finale conferma a seguito della decisione di riprendere a

collaborare.

12. Le dichiarazioni di Francesco Geraci

Francesco Geraci, collaboratore di giustizia, che pur non dichiaratosi

affiliato formalmente a “cosa nostra” ha ricostruito le sue numerose attività

illecite di sostegno all’organizzazione, aventi come perno il suo rapporto

fiduciario con Matteo Messina Denaro, del quale ha favorito a lungo la

latitanza e la contemporanea operatività criminale, ha fornito un contributo

51

utile per la ricostruzione degli attentati di Roma e di Firenze del 1993 (sul

punto si confronti la sentenza della Corte di Assise di Firenze). In quel

contesto al P.M. fiorentino (verb. 18/9/1994), aveva dichiarato che

Messina Denaro, dopo l’omicidio Lima, aveva commentato, riferendosi a

persone a lui ignote: “così vediamo con questa botta, cosa ne pensa”.

Ha pure affermato che prima degli attentati di Roma e Firenze lo stesso

Messina Denaro gli aveva chiesto cosa ne pensasse se l’organizzazione

avesse ucciso una serie di politici e giornalisti importanti (fece i nomi di

Martelli, Costanzo, Baudo e Santoro) per spingere lo Stato a trattare;

sull’argomento si ritornò nel corso di una riunione con Mariano Agate e,

dopo l’arresto di Riina, Gioacchino La Barbera disse a Geraci: “facendo

questi attentati e ‘ste cose tu non pensi che ci sarà qualcheduno che va

‘nni Riina e ci va dice mettemunni d’accordo ccà, finemula…”.

Il dato emergente dalle dichiarazioni di Geraci, che assume particolare

rilevanza per questo processo, consiste nel fatto che il collaboratore

riferisce circostanze idonee a dimostrare che i progetti “eversivi” gli

vennero manifestati già prima delle strage di Capaci e che lo stesso Geraci

soggiornò a Roma partecipando a vari tentativi di pedinamento sia dell’on.

Martelli sia del dott. Falcone (sul punto cfr. pure verb. P.M. di Firenze in

data 23/9/1996); giova pure evidenziare che tali dichiarazioni sono

ampiamente riscontrate, come si ricava dalla sentenza della Corte di Assise

di Firenze

13. Le dichiarazioni di Ezio Cartotto

13.1 – Un ulteriore profilo dell’indagine del P.M., volto a valutare la

fondatezza dell’ipotesi accusatoria, ha avuto riguardo alla determinazione

dell’epoca in cui Berlusconi e Dell’Utri intrapresero iniziative di carattere

politico, che avrebbero potuto renderli interlocutori di “cosa nostra” alla

ricerca di nuovi referenti. A questi fini è stata concentrata l’attenzione sul

giornalista Ezio Cartotto.

Cartotto è un personaggio che ha operato per conto degli odierni indagati

concorrendo alla formazione del movimento politico “Forza Italia”; tale

suo ruolo è emerso già da taluni accertamenti della Guardia di Finanza di

Torino, risalenti al 1996, e sui quali si ritornerà dopo aver esaminato le sue

dichiarazioni che hanno assunto maggiore rilievo nel presente

procedimento.

Occorre evidenziare che Cartotto al P.M. di Palermo (verb. 20/6/1997) ha

riferito che tra maggio e giugno del 1992 era stato contattato da Marcello

52

Dell’Utri, il quale lo mise a parte di un suo progetto politico; egli

sosteneva che, di fronte al venir meno dei referenti politici del gruppo

FININVEST, era necessario adoperarsi per evitare un’affermazione delle

sinistre che avrebbero certamente creato gravi difficoltà per questo gruppo.

Poiché tale sua idea non era condivisa all’interno della FINIVEST,

Dell’Utri lo invitò ad “operare come sotto il servizio militare e cioè

preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di

necessità”.

***

13.2 – Cartotto spiegherà poi al Tribunale di Palermo (verb. 4/5/1998,

proc. a carico di Dell’Utri Marcello e di Cinà Gaetano) e al P.M. di

Caltanissetta (verb. 16/7/1999) che aveva conosciuto Dell’Utri già negli

anni “70; all’epoca lo incontrava tra l’altro ai congressi della Democrazia

Cristiana.

Sulle attività e le posizioni politiche assunte in quel periodo da Dell’Utri, il

teste ha fornito indicazioni diverse; ha detto all’Ufficio requirente nisseno

che mentre egli faceva parte della c.d. “Base”, facente capo alla sinistra

democristiana, Dell’Utri gli diceva di essere vicino al gruppo di

Ciancimino in Sicilia. Al Tribunale di Palermo Cartotto ha dichiarato

invece che Dell’Utri non svolgeva attività politica militante nel gruppo di

Ciancimino, ma che semplicemente si informava con particolare interesse

su questo personaggio politico e sul suo intendimento di fondare una

corrente. La difformità tra le due versioni è stata da lui giustificata con un

difetto di memoria.

Cartotto ha dichiarato di aver conosciuto anche Berlusconi sin dagli anni

“70 e di avere seguito l’evoluzione dei rapporti tra lui e Dell’Utri. In una

prima fase Dell’Utri aveva lavorato alle dipendenze di Berlusconi con ruoli

di secondo piano, poi era uscito dal gruppo e si era messo a lavorare con

Rapisarda; quindi nel 1978 Dell’Utri aveva cercato di tornare con

Berlusconi riuscendovi di lì a poco e assumendo nel gruppo una posizione

di maggiore rilievo, quale responsabile di PUBLITALIA.

Cartotto ha anche riferito che nel periodo in cui Dell’Utri non lavorava più

con lui, Berlusconi aveva manifestato preoccupazioni per i pericoli di

rapimenti di familiari; Cartotto allora si curò di mettere in contatto

l’imprenditore con il dott. Allegra, allora capo dell’Ufficio politico della

Questura di Milano, che gli suggerì di incaricare della sua protezione un

certo Quartarone, il quale tuttora lavora per Berlusconi (sul punto cfr. pure

il verb. P.M. Caltanissetta 16/7/1999).

Il giornalista sin dal 1981 più volte aveva curato incontri e predisposto

53

conferenze per il personale delle imprese facenti capo alla FININVEST su

richiesta di Dell’Utri in ordine a problematiche politiche; questa attività

divenne più frenetica dal settembre del 1992.

Fu in quel periodo che Dell’Utri lo invitò a svolgere opera di vera e propria

consulenza politica per lavorare ad un progetto di individuazione di nuovi

referenti per il gruppo di Berlusconi. Cartotto ha dichiarato al P.M. di

Palermo (verb. 20/6/1997 P.M. Palermo) di essere stato assunto da

PUBLITALIA e di aver cominciato a lavorare in un ufficio all’ottavo

piano nei pressi di quello di Dell’Utri insieme ad una serie di collaboratori

messigli a disposizione da quest’ultimo.

Del suo ingresso nel gruppo, secondo Cartotto, Berlusconi ebbe

sicuramente contezza con la sua ufficiale assunzione nel settembre 1992.

***

13.3 – Su questi primi contatti con Dell’Utri e sul suo ruolo nella

realizzazione di un nuovo progetto politico Cartotto ha fornito indicazioni

diverse al P.M. di Caltanissetta (verb. 16/7/1999 P.M. Caltanissetta),

affermando che il progetto non gli fu proposto da Dell’Utri e che invece fu

studiato insieme da loro due :

“il dott. Dell’Utri mi chiese con preoccupazione di aiutarlo a capire sulla

base della mia esperienza i possibili scenari politici in movimento. Il dott.

Dell’Utri aveva vissuto in modo molto sofferto tutte le vicende che

avevano riguardato la regolamentazione della materia radio-televisiva in

Italia, in quanto Publitalia con il suo grande fatturato viveva come

fornitrice di servizi per le televisioni commerciali del gruppo Fininvest.

Solo qualche anno prima cinque ministri della sinistra della D.C. (tra cui

l’on.le Martinazzoli) si erano dimessi per protesta contro la

regolamentazione radiotelevisiva decisa in sostanza dal c.d. CAF (Craxi-

Andreotti-Forlani). In questa mutata situazione politica Dell’Utri vedeva

gravi rischi in negativo per il gruppo Finivest e della Pubblitalia di questa

regolamentazione(…).

Dell’Utri voleva perciò un’analisi fatta da me per parare con delle

iniziative i pericoli di questa situazione (…).

Sollecitato dal P.M. a chiarire i motivi della differente ricostruzione sul

punto, Cartotto ha sostenuto di non ravvisare contraddizioni con quanto

riferito in precedenza, puntualizzando:

“in realtà, il dott. Dell’Utri mi prospettò la necessità di individuare nuovi

referenti per il gruppo FINIVEST in quanto quelli tradizionali non

rappresentavano una capacità adeguata alle esigenze”

Dopo aver ricevuto l’incarico di disegnare possibili scenari idonei a

54

raggiungere l’obiettivo fissato da Dell’Utri, Cartotto si mise subito al

lavoro.

“Ricordo – ha riferito ancora il teste – che gli prospettai la possibilità di

trovare intese con i partiti di sinistra. Questa ipotesi la scartò in quanto

tali forze politiche avevano un rapporto privilegiato con i gruppi

imprenditoriali concorrenti riconducibili a “Repubblica” e a

“L’Espresso” che non avrebbe mai consentito di raggiungere lo scopo.

Gli sottoposi l’ulteriore possibilità di coinvolgere o comunque di dar vita

ad un legame con la Lega Nord, partito emergente in continua crescita.

Dell’Utri si manifestò più possibilista innanzi a questa via, anche se in

definitiva ritenne di scartarla perché si trattava di uomini nuovi che non

presentavano adeguata affidabilità. Mostrò, invece, maggiore interesse

per la terza ipotesi che gli suggerii, vale a dire il cambiamento all’interno

dei partiti tradizionali. Pensavo alla scissione della DC, come si era

ventilato da alcuni settori del medesimo partito, con la creazione di una

DC del nord da contrapporsi a quella del sud. Il dott. Dell’Utri

nell’aderire a questa proposta disse che si rendeva necessario creare un

aggregato di quel partito anche al sud. Tuttavia in concreto l’idea non

sembrava percorribile perché il potere non poteva essere ceduto da coloro

che lo detenevano. Conclusivamente mostrò di voler privilegiare la quarta

via che gli avevo prospettato, vale a dire quella della creazione di un

gruppo contenitore. Preciso che tutti questi discorsi che ho riassunto si

sono sviluppati nell’arco di un paio di mesi, durante gli incontri che

avevamo al Palace Hotel di Milano. Ricordo di aver predisposto degli

appunti nei quali avevo esposto le linee delle proposte di cui ho detto.

Con certezza posso dire che Dell’Utri decise di dar corso all’iniziativa

“contenitore” nel giugno 1992.”

Sul punto in realtà la contraddizione di Cartotto si rivela apparente, ove si

tenga conto di quanto egli ha dichiarato al P.M. di Torino, quale indagato

di reati tributari. Nel verbale dell’8/2/1996, egli aveva difatti affermato

che, dopo una lunga serie di incontri con Dell’Utri per confrontarsi su tali

argomenti, all’incirca a settembre del 1992, stipulò un contratto con

PUBLITALIA “secondo il quale il dott. Dell’Utri mi chiese di fare

un’operazione di ‘marketing sociale’, a seguito della quale potevano

anche nascere possibilità di lavoro per PUBLITALIA, ma che consisteva

soprattutto in una serie quanto più vasta possibile di contatti con gruppi o

associazioni al fine di verificare l’opinione che costoro avevano della

situazione sociale e politica, al fine di creare o migliorare i rapporti di

queste associazioni, enti e gruppi con il gruppo FINIVEST attraverso la

55

PUBLITALIA”.

Già allora Cartotto aveva dichiarato che in questo contesto egli aveva

avviato incontri su tematiche politiche con i vertici della FINIVEST.

Al P.M. nisseno ha spiegato con maggiore dettaglio:

“Il dottor dell’Utri decise di affidarmi il compito di dar vita ad un

“processo” accelerato di formazione e di trasformazione dei quadri

dirigenti del gruppo Fininvest in dirigenti politici, a far data dalla ripresa

del lavoro dopo la sospensione feriale estiva. Preciso di essere stato

invitato a metà settembre nel 1992 a Montecarlo, assieme agli ospiti

istituzionali del gruppo, alla tradizionale convention annuale. Fui invitato

a partecipare, “per sentire il polso” ai vari dirigenti del gruppo.”

Di questa convention, Cartotto aveva pure parlato al P.M. di Palermo,

dicendo che nel corso di essa Berlusconi invitò i suoi dipendenti a

prepararsi a qualsiasi evenienza per combattere i “nemici” che oramai

contavano molto di più degli “amici” che in passato li avevano aiutati.

Da quel momento Cartotto cominciò a partecipare ad incontri con

Berlusconi e Dell’Utri per studiare un progetto politico alternativo alle

sinistre.

***

13.4 – Secondo il teste, il gruppo di Berlusconi era profondamente diviso

in “falchi”, tra i quali Dell’Utri, e “colombe”, tra i quali Fedele

Confalonieri e Gianni Letta; i primi propugnavano un diretto

coinvolgimento del gruppo in politica, i secondi ritenevano che tale scelta

avrebbe avuto effetti disastrosi.

Ai “falchi”, nel 1993, si associarono anche Cesare Previti ed Ennio Doris

(presidente di “Programma Italia”), man mano che vennero a conoscenza

del progetto.

Alle “colombe” si aggregarono gli “opinionisti” del gruppo, come Indro

Montanelli, Federico Orlando, Maurizio Costanzo e Giorgio Gori.

Cartotto ha riferito di aver curato dall’ottobre 1992 in poi una serie di

contatti per la FINIVEST con la Confartigianato, la Coldiretti, i sindacati

autonomi e una parte della CISL e di aver verificato l’esigenza di tutte

queste forze di avere un referente politico nell’area del centro.

Ha poi sostenuto che nell’aprile del 1993 fu convocato da Berlusconi, il

quale gli disse che aveva necessità di prendere una decisione definitiva,

optando tra la proposta di Dell’Utri e quella di Confalonieri.

Alla riunione prese parte, oltre a Cartotto e a Berlusconi, anche Bettino

Craxi, invitato per la sua particolare competenza politica e per la sua

risalente amicizia con il presidente della FININVEST, mentre non furono

56

invitati i sostenitori delle opposte posizioni tra le quali l’imprenditore

lombardo avrebbe dovuto scegliere.

Si valutò in quell’occasione l’idea che il gruppo di Berlusconi appoggiasse

direttamente alcune forze politiche, sostenendo una nuova aggregazione

politica; una ragione di contrasto tra Craxi e Berlusconi fu la possibile

alleanza in un nuovo contenitore politico con l’allora MSI, che a dire del

primo avrebbe fatto perdere i voti di centro e avrebbe ricompattato la Lega

Nord (anziché scardinarla, come secondo lui sarebbe stato auspicabile), ma

ad avviso del secondo sarebbe stata utile nella prospettiva di raccogliere in

un unico fronte tutte le forze non comuniste.

Craxi comunque diede il via libera al progetto di Berlusconi.

Successivamente Berlusconi comunicò a Previti e a Dell’Utri di aver

deciso che il gruppo si sarebbe direttamente impegnato nella battaglia

politica. Così continua la ricostruzione di Cartotto:

“Si decise in quell’occasione di fare (come venne detto) un “giro d’Italia”

di tutte le aziende clienti del gruppo, per sensibilizzarle sulle iniziative

politiche da assumere. Previti diede il pieno appoggio all’iniziativa

manifestando però dei dubbi su eventuali ipotesi di leader di questo nuovo

movimento. Sin da allora del resto Berlusconi aveva evitato

accuratamente di fare il proprio nome come leader di questa nuova forza

politica.

Si pensava infatti ad alcuni ex DC come Martinazzoli e Segni o ad un ex

PSI come Amato.” (verb. P.M. Palermo in data 20/6/1997).

Frattanto venivano coltivati i rapporti del gruppo FINIVEST con la Lega

Nord, particolarmente curati da Dell’Utri che – secondo Cartotto – aveva

in mente un progetto simile a quello di Craxi, cioè portare dalla propria

parte un settore della Lega Nord e quindi arrivare ad esautorare Bossi.

Cartotto continuò a sondare varie forze sociali per valutare la possibilità di

un loro coinvolgimento nel nuovo progetto politico sino a quando tra il

luglio e l’agosto 1993 vi fu “il salto definitivo”.

“Nel luglio ’93, presso lo studio del notaio Roveda di Milano, venne

costituita l’associazione “Forza Italia! Associazione per il buon governo”.

In questo periodo vennero abbozzati i progetti politici della nuova forza e

vennero coinvolte persone esterne al gruppo come Urbani, Ciaurro e

Calligaris. Nell’agosto del 1993 quindi si arrivò ad una riunione dei

principali dirigenti Fininvest e degli altri esterni aderenti al progetto nel

corso del quale la decisione venne comunicata a Confalonieri e a Letta.”

(verb. P.M. Palermo in data 20/6/1997).

Cartotto ha pure parlato di uno scontro tra Confalonieri e Berlusconi a

57

seguito di quella riunione; Confalonieri aveva difatti ancora contestato

l’utilità del coinvolgimento diretto del gruppo nella lotta politica, perché la

sua forte presenza nel settore della comunicazione avrebbe potuto da una

parte influenzare pesantemente la libera scelta dei cittadini e dall’altra

parte porre i politici “amici” in una posizione assai scomoda dinanzi

all’opinione pubblica e nell’impossibilità di favorire la FINIVEST.

Tuttavia il timore dell’ascesa al potere di forze non democratiche in

conseguenza, oltre che del venir meno di tutto un ceto politico, anche delle

stragi del 1992 e del 1993, che avevano compromesso l’ordine pubblico

del paese, dette – secondo Cartotto – una forte accelerazione ai propositi di

Berlusconi e contribuì all’adozione del c.d. “Progetto Botticelli”, fino ad

allora rimasto segreto e quindi sconosciuto anche allo stesso Cartotto, che

così lo ha illustrato al P.M. di Palermo:

“Il progetto Botticelli prevedeva di trasformare alcuni dirigenti d’azienda

in dirigenti del nascente partito politico. Dietro questo progetto c’era

sempre il Dell’Utri, come può evincersi dal fatto che tutti i dirigenti del

nuovo movimento sono stati arruolati dalle strutture di PUBLITALIA.

Questo progetto confliggeva con quello originale che, come ho detto,

prevedeva il coinvolgimento di forze sociali esterne alla FININVEST, la

creazione di un nuovo soggetto politico con il semplice sostegno aperto da

parte della FININVEST. Questo progetto implicava chiaramente la

costituzione di un soggetto politico certamente di centro, e prevedeva

anche il tentativo di coinvolgere una parte della sinistra moderata (come

per esempio Amato).

Il progetto Botticelli, invece, era decisamente sbilanciato a destra, e

prevedeva il coinvolgimento sia della Lega che dei missini”. (verb. P.M.

Palermo in data 20/6/1997).

Di quel progetto Cartotto aveva pure ampiamente riferito al P.M. di Torino

(verb. 16/2/1996), precisando tra l’altro che esso prendeva il nome

dall’edificio di Segrate dove, negli uffici della FINIVEST concessi in

affitto da PUBLITALIA, si svolgevano le riunioni tra coloro che

condividevano il progetto stesso. Cartotto ha raccontato prima al P.M.

torinese poi al P.M. di Palermo di essere stato presto estromesso da questo

progetto proprio perché egli e le persone a lui legate erano esterne

all’azienda e non potevano essere ammesse perché mancava loro il

requisito principale richiesto: cioè un legame di dipendenza con l’azienda.

Cartotto chiese spiegazioni della sua estromissione a Berlusconi, il quale

gli disse che Dell’Utri lo aveva messo dinanzi al fatto compiuto, ma poi lo

invitò a tornare ad occuparsi del progetto come suo consigliere personale.

58

Si rese però conto che il suo posto era stato assegnato a Domenico

Mennitti del MSI, sicchè decise di allontanarsi definitivamente dal

progetto, pur rimanendo sempre in contatto con Berlusconi.

Sul punto al P.M. di Caltanissetta ha fornito indicazioni omogenee; pur

non parlando esplicitamente di “Progetto Botticelli”, Cartotto ha

raccontato nel verbale del 16/7/1999 di avere direttamente partecipato ad

attività finalizzate a trasformare i dirigenti di azienda in dirigenti politici e

ha aggiunto che “una volta compiuta la trasformazione dei quadri

dirigenziali del gruppo in esponenti politici titolari di incarichi e cariche

istituzionali il mio apporto si sarebbe dovuto concretizzare con una

collaborazione non più interna alla struttura imprenditoriale, bensì con un

rapporto di consulenza con la presidenza del Consiglio dei Ministri. Io

accettai l’incarico che non si concretizzò a causa della caduta del

governo”.

Giova pure ricordare che al P.M. di Palermo Cartotto ha riferito che

Berlusconi comunicò formalmente ai suoi collaboratori la decisione di

diventare egli stesso il leader del nuovo movimento subito dopo il Natale

1993, durante una grande riunione che si tenne ad Arcore.

***

13.5 – Cartotto non ha fatto mistero delle sue ragioni di malumore nei

confronti di Dell’Utri e di Berlusconi per la sua esclusione, nonostante le

precedenti promesse, prima da alcuni delicati incarichi e poi dalle liste

elettorali del nuovo movimento; ha tuttavia sostenuto di non essere stato

condizionato da motivi di astio nel riferire quanto a sua conoscenza sulla

genesi del movimento “Forza Italia”.

In ogni caso va rilevato che i contatti di Cartotto con la FINIVEST, con

Berlusconi e con Dell’Utri per lo svolgimento di conferenze ed attività di

consulenza politica sono stati ampiamente asseverati non solo dalle stesse

dichiarazioni spontanee di Dell’Utri nell’ambito del processo a suo carico

dinanzi al Tribunale di Palermo (cfr. verb. ud. 4/5/1998), ma anche da una

serie di altre attività di indagine.

La figura di Cartotto è difatti emersa nell’ambito delle investigazioni

svolte dalla Procura della Repubblica di Torino – Gruppo reati tributari

(proc. n.4488/95), i cui atti sono stati acquisiti in questo procedimento.

Cartotto era coinvolto in una serie di false fatturazioni finalizzate alla

corresponsione di compensi in suo favore per attività di consulenza

risalenti alla seconda metà del 1993 e consistita nella tessitura di una rete

di contatti con varie associazioni che avrebbero dovuto sostenere

l’associazione “Forza Italia”.

59

Tra i documenti sequestrati dagli investigatori vi sono alcune lettere

estremamente significative del tipo di attività in corso. Ad esempio in

quella del 25/1/1994, indirizzata a Silvio Berlusconi e a firma di Giuseppe

Resinelli (già Sindaco di Lecco, rappresentante del Circolo Milano 2000 e

del consorzio Gestione parco Adda), nonché di Giuseppe Pizzetti,

dipendente della Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti, si leggono

frasi estremamente indicative dell’attendibilità del Cartotto sul suo diretto

rapporto con Berlusconi e sui suoi compiti in ordine alla creazione di un

movimento politico che avesse come punto di riferimento l’imprenditore

milanese, nonché infine sul suo progressivo allontanamento dal progetto

da parte dei vertici della FINIVEST, a beneficio di altri soggetti. Può

citarsi a titolo esemplificativo il seguente passaggio: “dopo l’incontro ad

Arcore del 14 dicembre u.s. con Lei e con il dottor Cartotto, nel corso del

quale eravamo stati esortati a proseguire il lavoro intrapreso con le

associazioni, le categorie, le persone che fin dal giugno scorso avevamo

avvicinato, nella prospettiva che Ella assumesse la guida di un movimento,

ovvero di un partito politico, prospettiva poi concretizzatasi con la

creazione di ‘Forza Italia’…”.

Resinelli e Pizzetti lamentavano poi nel corpo della missiva che la loro

azione, pure insistentemente richiesta, non era stata coordinata con quella

di “coloro che già operano nei diversi ambiti territoriali e della società

civile”, e che in loro favore non erano stati poi onorati gli impegni

economici né erano state liquidate le spese sostenute.

Sempre in questo contesto, la Procura di Torino aveva accertato elementi

idonei a confermare l’attendibilità di Cartotto circa i suoi rapporti con

Dell’Utri, sulla base di documentazione sequestrata presso la segreteria

dello stesso Dell’Utri (nota della Guardia di Finanza in data 22/1/1996).

Diversi altri testi, tra i quali il sopra citato Resinelli (verb. 2/2/1996),

professionisti come Giovanni Mucci (verb. 22/2/1996) e Rodolfo Garofalo

(verb. 2/2/1996), hanno confermato sia i forti contatti di Cartotto con gli

ambienti politici e delle associazioni, sia i suoi privilegiati rapporti e le sue

collaborazioni con Dell’Utri e Berlusconi.

Cartotto ha infine messo a disposizione diversi documenti del suo archivio

che attestano lo svolgimento di questa attività di consulenza politica e di

cura delle relazioni esterne a fini di ‘marketing sociale’, già sin dagli inizi

dell’estate 1993 (cfr. atti acquisiti dal P.M. di Torino ed inseriti ai ff. 159 e

ss. del faldone 4/a).

Particolarmente interessanti sono le note da lui stesso redatte e indirizzate

a Berlusconi, contenenti le analisi politiche di cui ha parlato nei verbali

60

sopra esaminate.

14. Le dichiarazioni del Sen. Francesco Cossiga

14.1 – L’Ufficio requirente ha sentito a sommarie informazioni il Sen.

Francesco Cossiga (verb. 23/3/2000), in ordine alle vicende istituzionali

italiane degli anni tra il 1992 e il 1994. La sua innegabile esperienza

politica ai massimi livelli lo rende fonte di particolare interesse, come pure

rilevato dal P.M. che ha fondato taluni passaggi argomentativi della sua

richiesta di archiviazione sulle dichiarazioni dell’ex Presidente della

Repubblica.

Cossiga ha ricordato che, poco prima della strage di Capaci, il 23/4/1992,

si era dimesso dalla carica di Presidente della Repubblica perché era

entrato nel c.d. “semestre bianco”, stava subendo un procedimento di

“impeachment” per iniziativa dei partiti di sinistra e non avrebbe avuto i

necessari poteri per gestire la crisi di governo in corso. Le indagini della

Procura di Milano nel frattempo avevano già intaccato un sistema partitico,

ad avviso di Cossiga già indebolito, dopo la caduta del muro di Berlino,

dal venir meno della tradizionale contrapposizione ideologica tra

schieramenti. Ha affermato il Senatore a vita:

“La disgregazione dei singoli partiti nelle loro strutture personali,

organizzative ed elettorali cominciano a manifestarsi con Tangentopoli.

La persona beneficiata da questo mutamento va identificata nell’on.le

Berlusconi, il quale ebbe la capacità di creare un contenitore in cui quadri

intermedi ed elettori dei vecchi partiti trovassero identità e sicurezza.

Quella di Berlusconi è stata un’iniziativa quasi estemporanea che consentì

di neutralizzare i partiti della sinistra che erano rimasti sostanzialmente

intatti e dalla caduta del muro di Berlino e dal primo avvento di

Tangentopoli.

La decisione di scendere in politica di Berlusconi, per quanto mi consta,

va collocata in un periodo di tempo di circa due-tre mesi prima delle

elezioni del 1994. Ciò posso dire con assoluta certezza perché ebbi parte

nello sviluppo dei rapporti tra l’on.le Berlusconi e il leader del P.P.I. In

particolare, l’on.le Berlusconi aveva pensato che la funzione di

antagonista della sinistra potesse essere svolta dall’area del P.P.I.

riconducibile a Martinazzoli. Si rese, però, conto che ciò non poteva

realizzarsi, in quanto diversa era la visione della funzione che tale leader

politico aveva del P.P.I. rispetto a quella dell’on.le Berlusconi. Solo nel

momento in cui constatò tale iato si determinò a scendere direttamente in

61

politica. Mi risulta che egli era disposto anche a devolvere a favore del

partito popolare di Martinazzoli la struttura riconducibile a Forza Italia

che aveva iniziato a creare a far data dall’estate del 1993. I collaboratori

aziendali di Berlusconi erano scettici dinanzi alla sua iniziativa di

assumersi una responsabilità politica diretta. Mi viene richiesto di

indicare chi siano stati i collaboratori che mostravano di non credere alla

sua intuizione. Ed io dico praticamente tutti”.

***

14.2 – L’occasione che ha consentito al sen. Cossiga di apprendere tali

notizie non è stata adeguatamente esplicitata; egli non ha riferito – in

quanto il P.M. non gli ha posto domande in tal senso – in quale periodo

egli curò i contatti tra Berlusconi e Martinazzoli, per quali ragioni

Berlusconi lo scelse come suo emissario nella trattativa, con quali modalità

tale trattativa si articolò, quale era il concreto progetto politico del quale

l’ex Presidente della Repubblica sarebbe stato auspice (circostanza

quest’ultima di un certo rilievo anche in considerazione del fatto che nel

recente passato – come ricordato da Cartotto ed emergente dalla nota della

DIA del 5/2/1998 – Martinazzoli era stato uno dei ministri della DC che, in

polemica con un provvedimento del Governo favorevole al gruppo di

Berlusconi, si era dimesso dalla sua carica).

Ciò posto va tuttavia segnalato che dall’ampia raccolta dei dispacci

dell’agenzia ANSA degli anni 1992-1994, acquisita agli atti (fald. 4

carpetta A), si ricava che effettivamente il dibattito politico della fine del

1993 aveva ad oggetto una serie di consultazioni di Berlusconi con vari

esponenti politici, tra i quali con maggiore evidenza si segnalavano l’on.

Segni e l’on. Martinazzoli. Inoltre l’indiscutibile esperienza e la particolare

autorevolezza politica del Sen. Cossiga spiegano la circostanza che egli

sarebbe stato interessato da Berlusconi o da persone a lui vicine affinchè

venissero stipulati accordi politici con personaggi già da tempo impegnati

nella vita pubblica del Paese.

Questo Ufficio ritiene tuttavia che tra le dichiarazioni di Cartotto e quelle

del sen. Cossiga non vi possa essere il contrasto ventilato dal P.M. nella

richiesta di archiviazione.

E difatti, se non vi è alcun dubbio che, come riferito dall’ex Presidente

della Repubblica, la formalizzazione del diretto impegno politico di

Berlusconi avvenne agli inizi del 1994 (l’ANSA ne dette notizia il 26

gennaio di quell’anno), d’altro canto le dichiarazioni di Cartotto,

ampiamente compatibili tutta la documentazione acquisita dal P.M. di

Torino, dimostrano che all’interno delle aziende di Berlusconi sin dal 1992

62

venivano studiate iniziative finalizzate ad incidere sugli scenari politici in

fase di progressiva e non prevedibile trasformazione, al fine di evitare

l’affermazione di gruppi politici o finanziari, oramai dichiaratamente

interessati a colpire la loro realtà economica.

E sulle attività interne al gruppo FININVEST, così come sugli

orientamenti vari dei suoi esponenti ovviamente poteva essere meglio

informato chi in quel periodo vi aveva operato dall’interno quale

consulente politico da epoca ben più risalente a quella in cui il Sen.

Cossiga – da esterno – fu coinvolto nella gestione dei rapporti tra

Berlusconi e Martinazzoli.

Peraltro, come già ricordato da Cartotto, l’associazione denominata “Forza

Italia! Associazione per il buon governo” fu costituita il 29/6/1993 a

Milano (atto notar Roveda, acquisito al fascicolo) da alcuni noti

professionisti, alcuni inseriti nelle aziende controllate da FINIVEST, altri

comunque vicini a Berlusconi; e dall’esame della ricerca sui dispacci

ANSA, svolta dagli investigatori, si ricava che fin dai primi mesi del 1993

il dibattito politico era animato dalle ventilate ipotesi circa la creazione di

un non meglio definito “partito di Berlusconi”.

15. Le indagini su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi

15.1 – Snodo rilevante dell’indagine, anche sulla base delle dichiarazioni

dei collaboratori, è stato l’accertamento di elementi obiettivi in ordine a

rapporti o connessioni di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e persone

ad essi collegate con la criminalità organizzata di tipo mafioso.

Sul punto già una nota dello SCO della Polizia di Stato in data 18/2/1994,

su delega del Procuratore di Firenze, evidenziava che agli atti del suo

ufficio nulla emergeva in relazione a Berlusconi, a proposito del quale

veniva solo segnalato che egli era stato in passato oggetto di

investigazione per la sua appartenenza alla loggia massonica P2 e per i

suoi accertati collegamenti con il faccendiere Flavio Carboni; tali vicende

venivano ricostruite dagli investigatori in base a diversi atti (allegati alla

nota), perlopiù formati da organismi parlamentari di inchiesta.

Venivano viceversa evidenziati i rapporti dei fratelli Marcello e Alberto

Dell’Utri con esponenti di “cosa nostra” siciliana, emersi nell’ambito di

precedenti indagini per traffico di stupefacenti.

Successive investigazioni hanno accertato che Dell’Utri intratteneva

rapporti non solo con esponenti del mondo finanziario e con figure di

primo piano del mondo politico (ad esempio Aristide Gunnella e Bettino

63

Craxi),ma anche con personaggi palermitani poi fatti oggetto di indagine

per reati connessi con le attività dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra”;

tra i nomi apparentemente riconducibili a soggetti vicini alla predetta

organizzazione quello di Mandalari, identificabile secondo gli investigatori

nel commercialista Giuseppe Mandalari, quello di Gaetano Cinà, divenuto

poi coimputato del Dell’Utri in un procedimento pendente dinanzi all’A.G.

di Palermo, e quello di Mangano Vittorio, identificabile secondo gli

investigatori nel pregiudicato al quale i collaboratori hanno fatto

riferimento; relativamente al Mandalari risultano annotazioni nel periodo

di luglio 1992; relativamente al Mangano risulta un’annotazione del

2/11/1993 – probabilmente fatta da personale di Dell’Utri – con dicitura:

“Mangano Vittorio sarà a Mi X parlarle problema personale” (nota della

DIA in data 4/4/1995).

Sulla figura criminale di Vittorio Mangano, il fascicolo offre numerosi

elementi, contenendo le informative che lo riguardano e che sono state nel

tempo elaborate dagli inquirenti; basterà per tutti richiamare il rapporto

giudiziario in data 7/2/1983, congiuntamente redatto dalla Criminalpol

della Lombardia, del Lazio e della Sicilia, nonché dalla Questura di Roma

a carico di Bono Giuseppe + 159 per associazione mafiosa e associazione

finalizzata al traffico di stupefacenti. In tale documento Mangano veniva

individuato, sulla base di copioso materiale probatorio, come capo di un

gruppo dedito al traffico di stupefacenti su scala nazionale, saldamente

collegato alla mafia palermitana.

Lo stesso Dell’Utri in altri procedimenti (verb. P.M. Palermo 26/6/1996)

ha ammesso di aver conosciuto Mangano, di avere avuto con lui rapporti

ottimi, di averlo segnalato a Berlusconi perché fosse assunto alle sue

dipendenze; ha aggiunto di sapere che anche dopo la cessazione di questo

rapporto di lavoro Mangano continuò a frequentare la scuderia di Arcore

dove teneva a pensione un suo cavallo di nome “Epoca”. Ha infine riferito

di averlo incontrato ancora altre volte tra la fine degli anni “80 e gli inizi

degli anni ”90, perché dopo la sua scarcerazione Mangano di tanto in tanto

andava a trovarlo a Milano.

Mangano, sentito dal P.M. di Palermo il 29/6/1996, ha confermato le

circostanze, affermando che nel 1973 Marcello Dell’Utri e Gaetano Cinà

gli proposero il lavoro ad Arcore presso Berlusconi, indicatogli come un

amico di Dell’Utri che aveva da poco acquistato una proprietà con annessa

villa e che aveva bisogno di un fattore. Ha tenuto a precisare di non avervi

svolto attività come stalliere, bensì appunto come fattore.

Quando si trasferì a villa San Martino ad Arcore, essa era ancora in

64

ristrutturazione e per un certo periodo vi abitò soltanto lui con la sua

famiglia; dopo qualche tempo venne ad abitarvi anche la famiglia di

Berlusconi.

Ha dichiarato inoltre che durante la sua permanenza ad Arcore fu arrestato

in esecuzione di un ordine di carcerazione e, dopo essere stato scarcerato,

vi fece rientro. Passò poco tempo e sulla stampa vennero pubblicati articoli

che lo descrivevano come un pericoloso soggetto collegato con ambienti

mafiosi. “Mi preoccupai molto” – ha dichiarato Mangano – “soprattutto

per la situazione in cui mi sarei trovato con il dott. Berlusconi la cui

immagine sarebbe stata offuscata da quell’articolo. Ne parlai quindi con il

dott. Dell’Utri che mi fissò un appuntamento con il dott. Confalonieri. Nel

colloquio con quest’ultimo, io espressi la mia intenzione di lasciare villa

San Martino per lo stato di disagio che si era creato. Il Confalonieri,

appresa la mia intenzione, mi lasciò libero di decidere e non mi chiese di

andarmene”.

Mangano ha pure riferito della telefonata intercettata tra lui e Dell’Utri

nella quale si parlava dell’acquisto di un cavallo e ha escluso che il

riferimento fosse criptico, in quanto a suo dire egli doveva vendere alcuni

animali troppo costosi da mantenere; ha aggiunto che in realtà egli

intendeva scherzare con Dell’Utri poiché era ben a conoscenza del fatto

che il suo interlocutore non era interessato all’acquisto.

Ha poi tentato di smentire Dell’Utri affermando: “non ho mai incontrato

né telefonato né cercato il Dell’Utri dopo il 1990. Non avrei mai cercato

di incontrarmi con lui dopo essere stato condannato per gravi reati.

Cercandolo, avrei potuto soltanto portargli guai dopo tutto quello che è

successo”.

Le dichiarazioni di Mangano su quest’ultimo punto appaiono inattendibili,

proprio perché dalle stesse risultanze dell’agenda di Dell’Utri emergono

appunti relativi alla fissazione di incontri tra loro; lo stesso Dell’Utri ha

ammessi tali incontri, pur riconducendoli a rapporti di mera cortesia.

Questi dati confermano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia i quali

riferiscono circostanze specifiche in ordine al mantenimento di contatti con

Dell’Utri da parte di Mangano. Non forniscono utili ed esplicite conferme

in ordine alle ragioni per le quali tali rapporti venivano mantenuti dopo il

1990 dal Mangano.

Rimane in ogni caso oscuro il motivo per il quale il Mangano, già a

conoscenza della versione fornita da Dell’Utri in ordine ai loro incontri,

abbia voluto egualmente negarli.

***

65

15.2 – Per quanto attiene agli altri eventuali contatti con personaggi

siciliani, sempre da un block notes di Dell’Utri, tra il foglio datato

21/12/1993 e il foglio datato 3/2/1994, risultano diverse annotazioni

relative a contatti intrapresi dall’avvocato catanese Nino Papalia,

sottoposto ad indagine dalla DDA di Catania per traffico d’armi. In una di

queste (foglio 3/2/1994) leggesi: “Avv. Papalia per candidature su

Catania”.

La DIA ha pure segnalato, nella nota del 4/4/1996, che sull’”elenco agenda

12/5/1993”, sequestrata presso l’abitazione di Dell’Utri (Villa La

Comacina), è stato rinvenuta l’annotazione di due numeri telefonici di

Perrin Patrick, persona che sulla base di investigazioni eseguite in altri

procedimenti, risulta essere stato in contatto con Licio Gelli, essere stato

poi implicato in una vicenda di esportazione clandestina di pesetas ed in

epoca risalente al 1982 essere stato oggetto di ricerche internazionali per la

rapina di un portavalori insieme a Francesco Mangion e Giuseppe Strano,

entrambi esponenti del clan Santapaola di Catania.

E’ inoltre emerso che Dell’Utri ha fatto brevi soggiorni presso l’Hotel

Villa Igea di Palermo nel novembre 1991, nel marzo 1992, nel giugno

1992 e nell’ottobre 1992. Non sono invece emersi dati utili in ordine a

manifestazioni di propaganda elettorale che abbiano avuto luogo in

territorio siciliano nel 1992 con la partecipazione di Dell’Utri e di

Berlusconi.

Su delega del P.M., inoltre la DIA ha elaborato i traffici telefonici di

Marcello

Link to post
Share on other sites

arvi anche la famiglia di

Berlusconi.

Ha dichiarato inoltre che durante la sua permanenza ad Arcore fu arrestato

in esecuzione di un ordine di carcerazione e, dopo essere stato scarcerato,

vi fece rientro. Passò poco tempo e sulla stampa vennero pubblicati articoli

che lo descrivevano come un pericoloso soggetto collegato con ambienti

mafiosi. “Mi preoccupai molto” – ha dichiarato Mangano – “soprattutto

per la situazione in cui mi sarei trovato con il dott. Berlusconi la cui

immagine sarebbe stata offuscata da quell’articolo. Ne parlai quindi con il

dott. Dell’Utri che mi fissò un appuntamento con il dott. Confalonieri. Nel

colloquio con quest’ultimo, io espressi la mia intenzione di lasciare villa

San Martino per lo stato di disagio che si era creato. Il Confalonieri,

appresa la mia intenzione, mi lasciò libero di decidere e non mi chiese di

andarmene”.

Mangano ha pure riferito della telefonata intercettata tra lui e Dell’Utri

nella quale si parlava dell’acquisto di un cavallo e ha escluso che il

riferimento fosse criptico, in quanto a suo dire egli doveva vendere alcuni

animali troppo costosi da mantenere; ha aggiunto che in realtà egli

intendeva scherzare con Dell’Utri poiché era ben a conoscenza del fatto

che il suo interlocutore non era interessato all’acquisto.

Ha poi tentato di smentire Dell’Utri affermando: “non ho mai incontrato

né telefonato né cercato il Dell’Utri dopo il 1990. Non avrei mai cercato

di incontrarmi con lui dopo essere stato condannato per gravi reati.

Cercandolo, avrei potuto soltanto portargli guai dopo tutto quello che è

successo”.

Le dichiarazioni di Mangano su quest’ultimo punto appaiono inattendibili,

proprio perché dalle stesse risultanze dell’agenda di Dell’Utri emergono

appunti relativi alla fissazione di incontri tra loro; lo stesso Dell’Utri ha

ammessi tali incontri, pur riconducendoli a rapporti di mera cortesia.

Questi dati confermano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia i quali

riferiscono circostanze specifiche in ordine al mantenimento di contatti con

Dell’Utri da parte di Mangano. Non forniscono utili ed esplicite conferme

in ordine alle ragioni per le quali tali rapporti venivano mantenuti dopo il

1990 dal Mangano.

Rimane in ogni caso oscuro il motivo per il quale il Mangano, già a

conoscenza della versione fornita da Dell’Utri in ordine ai loro incontri,

abbia voluto egualmente negarli.

***

65

15.2 – Per quanto attiene agli altri eventuali contatti con personaggi

siciliani, sempre da un block notes di Dell’Utri, tra il foglio datato

21/12/1993 e il foglio datato 3/2/1994, risultano diverse annotazioni

relative a contatti intrapresi dall’avvocato catanese Nino Papalia,

sottoposto ad indagine dalla DDA di Catania per traffico d’armi. In una di

queste (foglio 3/2/1994) leggesi: “Avv. Papalia per candidature su

Catania”.

La DIA ha pure segnalato, nella nota del 4/4/1996, che sull’”elenco agenda

12/5/1993”, sequestrata presso l’abitazione di Dell’Utri (Villa La

Comacina), è stato rinvenuta l’annotazione di due numeri telefonici di

Perrin Patrick, persona che sulla base di investigazioni eseguite in altri

procedimenti, risulta essere stato in contatto con Licio Gelli, essere stato

poi implicato in una vicenda di esportazione clandestina di pesetas ed in

epoca risalente al 1982 essere stato oggetto di ricerche internazionali per la

rapina di un portavalori insieme a Francesco Mangion e Giuseppe Strano,

entrambi esponenti del clan Santapaola di Catania.

E’ inoltre emerso che Dell’Utri ha fatto brevi soggiorni presso l’Hotel

Villa Igea di Palermo nel novembre 1991, nel marzo 1992, nel giugno

1992 e nell’ottobre 1992. Non sono invece emersi dati utili in ordine a

manifestazioni di propaganda elettorale che abbiano avuto luogo in

territorio siciliano nel 1992 con la partecipazione di Dell’Utri e di

Berlusconi.

Su delega del P.M., inoltre la DIA ha elaborato i traffici telefonici di

Marcello Dell’Utri e di altri personaggi, considerati vicini a “cosa nostra”

(come ad esempio Salvatore Scardina e Rosario Cattafi), individuando

diversi punti di contatto anche nel periodo di interesse della presente

indagine; non sono stati ricavati specifici elementi meritevoli di ulteriore

approfondimento (cfr. fald. 3, carpetta B; fald. 3/B, carpetta D)

***

15.3 – Le indagini si sono rivolte poi verso le attività economiche e le

imprese riconducibili al c.d. Gruppo Finivest; in particolare, il P.M. ha

dapprima richiesto al ROS di predisporre un elenco di tutte le imprese che

erano state già oggetto di attenzione investigativa in relazione ai fenomeni

di condizionamento mafioso della libera concorrenza e degli appalti;

l’elenco è stato predisposto e trasmesso con nota dei ROS di Caltanissetta

in data 3/2/1999.

E’ stata quindi richiesta un’accurata indagine sul gruppo societario facente

capo alla Finivest: in evasione della delega la DIA ha trasmesso con nota

del 26/2/1999 due volumi contenenti le schede delle 401 società che tra

66

l’1/9/1991 e il 31/12/1993 operavano nel gruppo FINIVEST.

Il P.M. ha delegato quindi la DIA in data 10/3/1999, affinchè procedesse a

verificare la sussistenza, tra le imprese indicate dai ROS e le imprese

facenti capo al gruppo FINIVEST, di “dati di similitudine per quanto

attiene ai soci di maggioranza, agli amministratori, ai componenti del

collegio sindacale, ovvero se siano riscontrabili fenomeni di

associazioni

d’imprese, fusioni, trasformazioni o inglobamenti di sorta tra le imprese

indicate nei rispettivi elenchi, e ciò a far data dal 1987 e sino al 1994”.

Nella nota del 30/7/1999 (fald. 3/A), la DIA ha evidenziato la sussistenza

di specifici elementi di correlazione tra alcune delle società di interesse

degli odierni indagati ed altre società facenti capo a soggetti con ruoli di

primo piano nei settori più fortemente condizionati dagli interessi e dalle

direttive di “cosa nostra”; in particolare Filippo Salamone e Giovanni

Miccichè, ambedue indagati in procedimenti penali relativi a fatti di

condizionamento mafioso della libera concorrenza e della regolarità degli

appalti pubblici, risultavano titolari di quote nella Tecnofin Group s.p.a.

che aveva costituito con la CO.GE S.p.A. (controllata dalla Paolo

Berlusconi finanziaria s.p.a.) la Tunnedil s.c.a.r.l. per la realizzazione di

una galleria naturale e relativi raccordi sulla strada provinciale di

Favignana (appalto questo sul quale la Procura di Firenze, nell’ambito del

procedimento relativo alle stragi del 1993, ha svolto ampia attività di

indagine per cercare riscontri a propalazioni di collaboratori senza

conseguire risultati specifici; fald. 3/B carpetta A).

La suddetta CO.GE s.p.a. risultava aver avuto tra i suoi azionisti nel

periodo 1990-1993, oltre alla “Paolo Berlusconi Finanziaria s.r.l., anche

una serie di persone fisiche tra le quali tale Salvatore Simonetti, nato a San

Giuseppe Jato il 4/7/1952, ma residente a Roma sul quale il P.M.

appuntava la sua attenzione, disponendo ulteriori approfondimenti con

delega del 30/7/1999.

La DIA accertava che Salvatore Simonetti non era imparentato con i

Simonetti di San Giuseppe Jato (Giovanni e Domenico), già noti alle

autorità giudiziarie palermitane perché vicini a “cosa nostra” e prestanomi

di Riina e dei Brusca; tuttavia egli risultava essere stato cointeressato in

diverse società insieme a soggetti già sottoposti ad indagine per reati

connessi all’organizzazione “cosa nostra”, come i già menzionati

Salamone e Miccichè e come Giovanni Gentile, legato al noto capomafia

di Trapani, Vincenzo Virga (cfr. nota DIA del 20/3/2000).

In proposito va rilevato che Gentile era uno dei soci della IM.PRE.GET.

s.r.l., altra società che confluì nella Tunnedil s.c.a.r.l. per il lavoro sulla

67

galleria di Favignana.

Giova altresì ricordare che, secondo le dichiarazioni di Angelo Siino e di

Giovanni Brusca, già positivamente vagliate da altre autorità competenti a

conoscere dei relativi fatti-reato, Salamone aveva partecipato con ruolo di

organizzatore alla formulazione e alla rigorosa applicazione del c.d. “patto

del tavolino”, in base al quale gli appalti in territorio siciliano venivano

gestiti dallo stesso Salamone, da Antonino Buscemi (imprenditore vicino a

Riina e titolare al 50% della “Reale Costruzioni” facente capo al gruppo

Ferruzzi) e da Giovanni Bini (uomo di fiducia di Buscemi, che svolse il

ruolo di rappresentante delle società facenti capo al gruppo Ferruzzi in

Sicilia); il “patto” garantiva i legami con la grande imprenditoria per la

realizzazione dei lavori di maggiore valore, il controllo su di essi di “cosa

nostra”, il recupero delle somme da corrispondere all’organizzazione e ai

politici che assicuravano gli appalti.

Sempre tra i soci della CO.GE., emergeva anche tale Giorgio Mori; il P.M.

nella sua richiesta di archiviazione segnala un legame parentale di costui

con il Gen. Mori, uno dei protagonisti della trattativa con Ciancimino

all’epoca delle stragi, ma conclude, condivisibilmente, che il collegamento

non è sufficiente a prefigurare che l’alto ufficiale dell’Arma potesse aver

avuto contatti con Berlusconi e dell’Utri e quindi potesse essere stato

“ambasciatore” di costoro nel rapportarsi con gli uomini di “cosa nostra”.

La nota della DIA del 30/7/1999 evidenziava altresì che la famiglia Rappa,

alcuni componenti della quale sono stati indagati per reati di associazione

mafiosa, di estorsione e di riciclaggio (sul punto vi è copiosa

documentazione giudiziaria trasmessa dalla DIA con nota del 20/3/2000),

erano titolari della CIPEDIL s.p.a. (già oggetto di indagine dei ROS) ed

erano stati cointeressati nella “Sicilia televisiva s.p.a.”, nella quale erano

poi subentrati amministratori facenti capo alla “Fininvest” e che è stata

ancora in seguito incorporata in “Rete quattro s.p.a.”.

***

15.4 – Il P.M. ha evidenziato nella sua richiesta di archiviazione che su

questi rapporti di affari e su queste cointeressenze si è spostata l’attenzione

del suo Ufficio al fine di individuare i mandanti c.d. “esterni” delle stragi

del 1992.

Lasciando al P.M. le valutazioni di sua competenza in ordine all’utilità di

tali dati per individuare eventuali ulteriori piste investigative diverse da

quelle sinora perseguite, rileva l’Ufficio che tali accertati rapporti di

società facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione

collegati all’organizzazione “cosa nostra” costituiscono dati oggettivi che

68

– in uno agli altri elementi relativi ai contatti e alle frequentazioni di

Dell’Utri con esponenti della stessa cosca – rendono quantomeno non del

tutto implausibili nè peregrine le ricostruzioni offerte dai diversi

collaboratori di giustizia, esaminate nel presente procedimento, in base alle

dichiarazioni dei quali si è ricavato che gli odierni indagati erano

considerati facilmente contattabili dal gruppo criminale; vi è insomma da

ritenere che tali rapporti di affari con soggetti legati all’organizzazione

abbiano quantomeno legittimato agli occhi degli “uomini d’onore” l’idea

che Berlusconi e Dell’Utri potessero divenire interlocutori privilegiati di

“cosa nostra”.

A ciò si aggiunga che altri soggetti comunque legati al gruppo Fininvest

avevano intrattenuto rapporti di affari con personaggi di “cosa nostra” (sul

punto si fa richiamo ai numerosi atti contenuti nei faldoni 4/A1, 4/A5,

4/A6, relativi a Massimo Maria Berruti, la persona che secondo Siino

avrebbe fatto da intermediario con Berlusconi per una delle trattative

finalizzate a propugnare una legislazione più favorevole a “cosa nostra”).

Infine il gruppo Fininvest, nella sua progressiva espansione nel settore

televisivo, incorporò tra l’aprile e il novembre del 1991 ben cinque società

che avevano sede a Palermo (“Rete Sicilia s.r.l.”, la già citata “Sicilia

Televisiva s.p.a”, “Sicil Tele s.r.l.”, “Trinacria TV s.r.l.”, “CRT Sicilia

Color s.r.l.”; cfr. nota della DIA in data 15/3/2000); la circostanza rende

pure plausibile che “cosa nostra”, in quel periodo fortemente radicata sul

territorio e certamente capace di condizionare le attività economiche in

esso operanti, non rimanesse inerte dinanzi all’avanzare di una realtà

imprenditoriale di quelle proporzioni, perlopiù facente capo ad un gruppo

nel quale si muovevano soggetti già considerati facilmente avvicinabili in

forza di pregressi rapporti.

Vi è poi la vicenda relativa agli attentati alla “Standa”, in relazione ai quali

discordanti sono state le notizie fornite dai collaboratori; tutti d’accordo

nell’indicare come essi perseguissero finalità estorsive, secondo alcuni di

costoro ulteriore scopo era quello di promuovere un contatto con

Berlusconi o con Dell’Utri da utilizzare anche per ottenere sostegno agli

interessi dell’associazione. Brusca ha escluso invece tale ulteriore finalità

e, sebbene sui tentativi di “cosa nostra” di avviare relazioni con gli odierni

indagati egli sia apparso a questo Ufficio reticente, non si può escludere

che sul punto le sue affermazioni siano veritiere.

Difatti, delle due l’una: o Berlusconi e Dell’Utri versavano già da tempo a

“cosa nostra” dei contributi, come molti collaboratori hanno riferito, e

allora il rapporto già sussisteva e non era necessario propiziarlo con altre

69

iniziative, oppure non vi era alcun rapporto pregresso (pertanto le

convergenti dichiarazioni dei collaboratori non sarebbero credibili) e allora

gli attentati di Catania potevano essere utili.

Si propone una terza alternativa, che nella contraddittorietà delle

indicazioni dei collaboratori rimane solo un’ipotesi; e cioè che gli attentati

dovessero servire a fare maggiore pressione su Berlusconi e dell’Utri, ad

alzare insomma la “posta” e a coinvolgere con un ruolo di rilievo anche le

cosche catanesi.

Va comunque segnalato che, come riferito dalla DIA nella nota del

6/12/1999, non è stato possibile acquisire “elementi utili aventi carattere

esaustivo” in ordine ai viaggi aerei effettuati da Marcello Dell’Utri tra

Milano e Catania nel periodo in cui si sarebbe dovuto incontrare (a Catania

o, secondo Avola, a Messina) per discutere delle richieste degli uomini di

“cosa nostra”.

16. Conclusioni

La ricognizione degli atti di indagine contenuti nel fascicolo fa emergere,

ad avviso di questo Ufficio, che gli spunti indiziari a sostegno dell’ipotesi

accusatoria, per quanto numerosi, risultano incerti e frammentari, pertanto

inidonei a legittimare l’esercizio dell’azione penale e insuscettibili di

ulteriore approfondimento.

Gli esiti dei processi già celebrati e gli elementi agli atti convergono nel

dimostrare che le stragi di Capaci e di Via D’Amelio maturarono in “cosa

nostra”, dopo che i vertici dell’organizzazione ritennero di aver subito

gravi affronti in ragione di nuove iniziative governative di contrasto della

criminalità e dell’esito del maxiprocesso in Cassazione.

Ai loro occhi si era determinata un’inedita ed inammissibile saldatura tra i

suoi tradizionali nemici (Falcone e Borsellino) ed i suoi ex amici (tali

consideravano Andreotti e la sua corrente, Martelli e altri esponenti del

PSI), da contrastare con ogni mezzo.

La strategia era quella di eliminare fisicamente e politicamente tutti

costoro; già questo basta a prefigurare nella logica di “cosa nostra”

l’esigenza di avere nuovi interlocutori. Le trattative difatti sarebbero

dovute avvenire con lo Stato, ma non s’intendeva certamente accettare

nuove alleanze a nuove condizioni con coloro i quali avevano “tradito”.

Si è visto che la finalità di cercare nuovi contatti e nuovi equilibri fu

perseguita a tutto campo e diverse iniziative furono coltivate: quella che

coinvolgeva Bellini, quella che vide protagonisti gli ufficiali dei ROS,

70

quella a cui alludeva Riina quando disse a Brusca “si sono fatti sotto”.

Uno dei pensieri costanti di “cosa nostra” era anche nel 1992 e nel 1993

creare i “contatti politici”. In questa prospettiva appare compatibile

l’interesse e il diretto coinvolgimento nella creazione di movimenti

separatisti, come “Sicilia Libera”, da utilizzare quale extrema ratio al

fallimento di altro tipo di soluzioni di collateralismo politico, da sempre

preferiti da “cosa nostra”.

Dopo la strage di Capaci, vi erano in cantiere altre attività rientranti nella

strategia di attacco ad esponenti delle forze politiche tradizionali, ma

nessuna particolarmente eclatante. Vi fu poi qualcosa che fece mutare i

programmi e il progetto di uccidere il dott. Borsellino fu eseguito nelle

forme ben note dell’esplosione dell’autobomba in via D’Amelio.

Questo secondo grave attentato ebbe la prevedibile conseguenza di dare

legittimazione ad iniziative ancora più incisive contro “cosa nostra”, che

mai fino ad allora lo Stato aveva avuto la risolutezza di attuare.

In argomento sono sempre state avanzate due ipotesi: o l’organizzazione

commise il più grave errore tattico della sua storia in ragione della non più

gestibile tracotanza dei suoi aderenti oppure essa agì convinta che la

reazione dello Stato non vi sarebbe stata.

La prima ipotesi appare improbabile anche perché contrastante con gli stili

tradizionali di “cosa nostra”, emergenti dagli esiti di innumerevoli processi

oramai appartenenti al notorio, e perché certamente ci fu una circostanza

nuova e non preventivata – la cui natura nessun collaboratore ha saputo

svelare – che portò a far considerare prioritario un’eclatante attentato a

Borsellino. L’unico fatto noto alla cronaca di quei giorni e che potrebbe

spiegare l’accelerazione è la candidatura di Borsellino alla Direzione

Nazionale Antimafia; ma residua comunque una rilevante sproporzione tra

il vantaggio che “cosa nostra” avrebbe conseguito uccidendo un inquirente

di quella autorevolezza e di quelle capacità e il danno derivante dalla

prevedibile reazione dello Stato e dell’opinione pubblica, dopo che il grave

attentato, già di per sé idoneo ad elevare il livello di allarme per la

pericolosità delle organizzazioni criminali, fosse chiaramente apparso

come mirato ad impedire ad un magistrato all’epoca popolarissimo di

svolgere le più alte funzioni investigative nel settore dell’antimafia.

Residua pertanto la seconda ipotesi che cerca al di là della tracotanza della

linea di Riina i motivi dell’accelerazione e del conseguente abbandono

della tradizionale prudenza tattica di “cosa nostra”. In questo ambito trova

cittadinanza l’ulteriore florilegio di ipotesi secondo le quali

l’organizzazione avrebbe agito dopo la consultazione di soggetti in grado

71

di garantire appoggio per scongiurare una reazione repressiva; soggetti che

avrebbero richiesto, concordato, acconsentito o consentito i delitti per cui

si procede.

E’ del pari credibile che, se anche i vertici di “cosa nostra” avessero

coltivato una strategia di attacco senza curarsi delle tradizionali regole di

prudenza dell’organizzazione, al fine di sedare le perplessità degli altri

affiliati abbiano potuto ingigantire o solo millantare la sussistenza di

appoggi che garantissero l’immunità.

Così può essere ancora credibile che dai comportamenti di alcuni soggetti

esterni all’organizzazione, protagonisti delle trattative, gli uomini di “cosa

nostra” abbiano tratto l’erroneo convincimento della necessità di realizzare

attentati ancor più eclatanti.

Ma questa ulteriore ipotesi potrebbe essere avvalorata, se fosse possibile

identificare con certezza le trattative del Gen. Mori e del magg. De Donno

con quelle cui alludeva Riina, quando disse a Brusca che qualcuno “si era

fatto sotto”. In mancanza di elementi sicuri in questo senso rimane ancora

oscuro il motivo della più volte evidenziata accelerazione.

Gli atti al fascicolo hanno ampiamente dimostrato la sussistenza di varie

possibilità di contatto tra uomini appartenenti a “cosa nostra” ed esponenti

e gruppi societari controllati in vario modo dagli odierni indagati. Ciò di

per sé legittima l’ipotesi che, in considerazione del prestigio di Berlusconi

e Dell’Utri, essi possano essere stati individuati dagli uomini

dell’organizzazione quali eventuali nuovi interlocutori.

Dalle dichiarazioni di Cartotto e da altre risultanze è emerso che già nel

1992 Dell’Utri aveva avviato delle iniziative finalizzate ad incidere sugli

scenari politici in progressiva trasformazione in modo da raccogliere

consensi attorno a formazioni non avverse alla FININVEST. Anche questo

attivismo, se ovviamente fosse stato noto a “cosa nostra”, avrebbe potuto

suscitare l’interesse di tale organizzazione.

Occorre tuttavia verificare se effettivamente tali contatti vi siano stati e che

esito abbiano avuto.

Orbene le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che dovrebbero

riscontrare tale ipotesi sono tutte “de relato” e, come si è visto, il più delle

volte generiche ed incerte nei contenuti.

I collaboratori maggiormente in grado di fornire informazioni precise sulle

trattative devono ritenersi comunque quelli che all’epoca componevano la

Commissione, e cioè Cancemi, reggente di Porta Nuova, e Giovanni

Brusca, reggente di San Giuseppe Jato.

Le progressive e anguillose propalazioni di Cancemi sono viziate dalla sua

72

costante propensione a ridimensionare il proprio ruolo nei reati

contestatigli; dopo aver fatto riferimento alle notizie apprese da Ganci su

“persone importanti” contattate da Riina, egli ha poi finalmente ammesso

di aver partecipato a riunioni deliberative e in questo contesto ha detto che

sentì parlare Riina di Berlusconi e Dell’Utri. Non ha spiegato nulla del tipo

di accordo che con loro sarebbe intervenuto e di quale poteva essere

l’interesse di costoro alle stragi per cui si procede.

Brusca dal canto suo ha dichiarato di non sapere nulla di questi contatti,

ma si è anche visto che le sue propalazioni in ordine al suo coinvolgimento

e alle sue conoscenze circa i contatti politici intrattenuti

dall’organizzazione negli anni 1991- 1994 sono apparse particolarmente

reticenti. E tuttavia, se quanto da lui riferito non vale a dare netta smentita

alle dichiarazioni di Cancemi, per altro verso non consente di dare ad esse

alcun riscontro né di superare la loro genericità.

Un movente a carico degli odierni indagati potrebbe essere prefigurato

dalle dichiarazioni di Siino, anch’esse “de relato”, in ordine al tentativo di

avvicinare Craxi attraverso Berlusconi, tentativo sul quale altri

collaboratori hanno deposto. Esse delineano uno scenario parzialmente

diverso: Berruti avrebbe consigliato a Gioè di mettere in atto azioni

eclatanti, idonee a consentire a Craxi, uomo politico particolarmente vicino

a Berlusconi, di assumere posizioni di vertice e bloccare le azioni di

contrasto a “cosa nostra”. Ma questo tipo di ricostruzione, assai difficile da

riscontrare con dati estrinseci, fa riferimento ad un progetto velleitario e di

ben scarsa praticabilità nel periodo delle stragi, quando comunque il ruolo

politico di Craxi era irrimediabilmente compromesso dagli esiti delle

indagini della Procura di Milano e dai contrasti interni al suo partito (sul

punto le risultanze di cui alla nota della DIA del 5/2/1998); sicchè non

offre elementi di specifica coerenza al quadro indiziario in esame.

La valutazione – svolta nei paragrafi precedenti – delle dichiarazioni degli

altri collaboratori di giustizia palermitani e catanesi, come Cannella,

Pennino e Avola, che hanno avuto ruoli di diverso spessore criminale, ha

mostrato poi che esse non presentano in tutta la loro pienezza i requisiti di

attendibilità e tale carenza non è supplita da sufficienti elementi di

riscontro estrinseco.

Le indicazioni di altri collaboratori di giustizia (Pietro Romeo e Giovanni

Ciaramitaro; cfr. i verbali di interrogatorio resi al P.M. di Firenze in fald.2

carpette U e V) in ordine a notizie da loro apprese circa il ruolo di

istigatori assunto dagli odierni indagati nelle stragi del 1993 sono state già

oggetto di procedimento dinanzi all’A.G. di Firenze che, come ricordato

73

nel par.1, è stato archiviato per l’insufficienza degli elementi a sostenere

l’accusa in giudizio.

Pertanto, a prescindere dal loro valore probatorio, come già fondatamente

sottolineato dal P.M. nella richiesta di archiviazione, non potrebbero essere

utili a sostenere la diversa ipotesi accusatoria di un concorso di Berlusconi

e Dell’Utri nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

La friabilità del quadro indiziario impone pertanto l’archiviazione del

procedimento.

P.Q.M.

Visti gli artt. 408 e 411 c.p.p., 125 disp. Att. c.p.p.,

DISPONE l’archiviazione del procedimento e la trasmissione degli atti al

P.M.

Caltanissetta, 3/5/2002

IL GIUDICE

- dott. Giovanbattista Tona -

Link to post
Share on other sites

C’era una volta una dolce bimbetta; solo a vederla le volevan tutti bene, e specialmente la nonna che non sapeva più che cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso, e poiché‚ le donava tanto, ed ella non voleva portare altro, la chiamarono sempre Cappuccetto Rosso. Un giorno sua madre le disse: “Vieni, Cappuccetto Rosso, eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna; è debole e malata e si ristorerà. Sii gentile, salutala per me, e va’ da brava senza uscire di strada, se no cadi, rompi la bottiglia e la nonna resta a mani vuote.”

 

“Sì, farò tutto per bene,” promise Cappuccetto Rosso alla mamma, e le diede la mano. Ma la nonna abitava fuori, nel bosco, a una mezz’ora dal villaggio. Quando Cappuccetto Rosso giunse nel bosco, incontrò il lupo, ma non sapeva che fosse una bestia tanto cattiva e non ebbe paura. “Buon giorno, Cappuccetto Rosso,” disse questo. “Grazie, lupo.” - “Dove vai così presto, Cappuccetto Rosso?” - “Dalla nonna.” - “Che cos’hai sotto il grembiule?” - “Vino e focaccia per la nonna debole e vecchia; ieri abbiamo cotto il pane, così la rinforzerà!” - “Dove abita la tua nonna, Cappuccetto Rosso?” - “A un buon quarto d’ora da qui, nel bosco, sotto le tre grosse querce; là c’è la sua casa, è sotto la macchia di noccioli, lo saprai già,” disse Cappuccetto Rosso. Il lupo pensò fra s’: Questa bimba tenerella è un buon boccone prelibato per te, devi far in modo di acchiapparla. Fece un pezzetto di strada con Cappuccetto Rosso, poi disse: “Guarda un po’ quanti bei fiori ci sono nel bosco, Cappuccetto Rosso; perché‚ non ti guardi attorno? Credo che tu non senta neppure come cantano dolcemente gli uccellini! Te ne stai tutta seria come se andassi a scuola, ed è così allegro nel bosco!”

 

Cappuccetto Rosso alzò gli occhi e quando vide i raggi del sole filtrare attraverso gli alberi, e tutto intorno pieno di bei fiori, pensò: Se porto alla nonna un mazzo di fiori, le farà piacere; è così presto che arrivo ancora in tempo. E corse nel bosco in cerca di fiori. E quando ne aveva colto uno, credeva che più in là ce ne fosse uno ancora più bello, correva lì e così si addentrava sempre più nel bosco. Il lupo invece andò dritto alla casa della nonna e bussò alla porta. “Chi è?” - “Cappuccetto Rosso, ti porto vino e focaccia; aprimi.” - “Non hai che da alzare il saliscendi,” gridò la nonna, “io sono troppo debole e non posso alzarmi.” Il lupo alzò il saliscendi, entrò, e senza dir motto andò dritto al letto della nonna e la inghiottì. Poi indossò i suoi vestiti e la cuffia, si coricò nel letto, e tirò le cortine.

 

Ma Cappuccetto Rosso aveva girato in cerca di fiori, e quando ne ebbe raccolti tanti che più non ne poteva portare, si ricordò della nonna e si mise in cammino per andare da lei. Quando giunse si meravigliò che la porta fosse spalancata, ed entrando nella stanza ebbe un’impressione così strana che pensò: “Oh, Dio mio, che paura oggi! e dire che di solito sto così volentieri con la nonna!” Allora si avvicinò al letto e scostò le cortine: la nonna era coricata con la cuffia abbassata sulla faccia, e aveva un aspetto strano. “Oh, nonna, che orecchie grandi!” - “Per sentirti meglio.” - “Oh, nonna, che occhi grossi!” - “Per vederti meglio.” - “Oh, nonna, che mani grandi!” - “Per afferrarti meglio.” - “Ma, nonna, che bocca spaventosa!” - “Per divorarti meglio!” E come ebbe detto queste parole, il lupo balzò dal letto e ingoiò la povera Cappuccetto Rosso.

 

Poi, con la pancia bella piena, si rimise a letto, s’addormentò e incominciò a russare sonoramente. Proprio allora passò lì davanti il cacciatore e pensò fra s’: “Come russa la vecchia! devi darle un’occhiata se ha bisogno di qualcosa.” Entrò nella stanza e avvicinandosi al letto vide il lupo che egli cercava da tempo. Stava per puntare lo schioppo quando gli venne in mente che forse il lupo aveva ingoiato la nonna e che poteva ancora salvarla. Così non sparò, ma prese un paio di forbici e aprì la pancia del lupo addormentato. Dopo due tagli vide brillare il cappuccetto rosso, e dopo altri due la bambina saltò fuori gridando: “Che paura ho avuto! Era così buio nella pancia del lupo!” Poi venne fuori anche la nonna ancora viva. E Cappuccetto Rosso andò prendere dei gran pietroni con cui riempirono il ventre del lupo; quando egli si svegliò fece per correr via, ma le pietre erano così pesanti che subito cadde a terra e morì.

 

Erano contenti tutti e tre: il cacciatore prese la pelle del lupo, la nonna mangiò la focaccia e bevve il vino che le aveva portato Cappuccetto Rosso; e Cappuccetto Rosso pensava fra s’: “Mai più correrai sola nel bosco, lontano dal sentiero, quando la mamma te lo ha proibito.”

 

Raccontano pure che una volta Cappuccetto Rosso portava di nuovo una focaccia alla vecchia nonna, e un altro lupo le aveva rivolto la parola, cercando di convincerla a deviare dal sentiero Ma Cappuccetto Rosso se ne guardò bene, andò dritta per la sua strada e disse alla nonna di aver visto il lupo che l’aveva salutata, guardandola però con occhi feroci: “Se non fossimo stati sulla pubblica via, mi avrebbe mangiata!” - “Vieni,” disse la nonna, “chiudiamo la porta perché‚ non entri.” Poco dopo il lupo bussò e disse: “Apri, nonna, sono Cappuccetto Rosso, ti porto la focaccia.” Ma quelle, zitte, non aprirono; allora il malvagio gironzolò un po’ intorno alla casa e alla fine saltò sul tetto per aspettare che Cappuccetto Rosso, a sera, prendesse la via del ritorno: voleva seguirla di soppiatto per mangiarsela al buio. Ma la nonna capì le sue intenzioni. Davanti alla casa c’era un grosso trogolo di pietra, ed ella disse alla bambina: “Prendi il secchio, Cappuccetto Rosso; ieri ho cotto le salsicce, porta nel trogolo l’acqua dove han bollito.” Cappuccetto Rosso portò tanta acqua, finché‚ il grosso trogolo fu ben pieno. Allora il profumo delle salsicce salì alle nari del lupo; egli si mise a fiutare e a sbirciare giù, e alla fine allungò tanto il collo che non pot‚ più trattenersi e incominciò a scivolare: scivolò dal tetto proprio nel grosso trogolo e affogò. Invece Cappuccetto Rosso tornò a casa tutta allegra e nessuno le fece del male.

Link to post
Share on other sites
Scusatemi per il pippone

 

ma Moggi quand'è che entra in scena?!? :asd

 

 

 

aspetta un attimo, ora chiedo a Moncalvo

 

 

 

@B-George: minchia, ma che sei entrato nell'archivio segreto di Peter Gomez? :asd

 

CREDO SIA L'ARCHIVIO DELLA CIA...

:asd

Link to post
Share on other sites
Scusatemi per il pippone

 

ma Moggi quand'è che entra in scena?!? :asd

 

 

 

aspetta un attimo, ora chiedo a Moncalvo

 

 

 

@B-George: minchia, ma che sei entrato nell'archivio segreto di Peter Gomez? :asd

 

 

Una vecchia sentenza che mi faceva piacere condividere..un racconto più che altro,perche di solito non si associa la figura di Berlusconi alla mafia..invece i suoi primi passi li mosse con vari aiutini..

è ovvio che delego te per rispondere al Papero :asd

Link to post
Share on other sites
Scusatemi per il pippone

 

ma Moggi quand'è che entra in scena?!? :asd

 

 

 

aspetta un attimo, ora chiedo a Moncalvo

 

 

 

@B-George: minchia, ma che sei entrato nell'archivio segreto di Peter Gomez? :asd

 

 

Una vecchia sentenza che mi faceva piacere condividere..un racconto più che altro,perche di solito non si associa la figura di Berlusconi alla mafia..invece i suoi primi passi li mosse con vari aiutini..

è ovvio che delego te per rispondere al Papero :asd

 

 

 

ma che vuoi rispondergli, al massimo per lui CIA vuol dire Commissione Italiana Anatre

Link to post
Share on other sites

tutto "bello" e interessante..ma il problema è che alla meta' degli italiani non gliene puo' fregare di meno...questo è la fregatura...l'italiano medio pensa " cazzo mi fotte se quello è mafioso o ruba...lo farei anche...e anche le zoccole...fortunato lui!"....ecco il problema..

Link to post
Share on other sites
tutto "bello" e interessante..ma il problema è che alla meta' degli italiani non gliene puo' fregare di meno...questo è la fregatura...l'italiano medio pensa " cazzo mi fotte se quello è mafioso o ruba...lo farei anche...e anche le zoccole...fortunato lui!"....ecco il problema..

 

 

dove stai tu adesso parlate della situazione italiana? lì il Berlusca come viene percepito?

Link to post
Share on other sites

trovato

 

da La Padania del 19 agosto '98

 

10 domande al Signor Berlusconi

 

1.

 

Il 26 settembre 1968, la sua Edilnord Sas acquistò dal conte Bonzi l’intera area dove lei, signor Berlusconi, edificherà Milano2. Lei pagò il terreno 4.250 lire al metro, per un totale di oltre tre miliardi di lire. Questa somma, nel ’68, quando lei aveva 32 anni e nessun patrimonio familiare a disposizione, era di enorme portata. Oggi, tabella Istat alla mano, equivarrebbe a oltre 38.739.000.000 lire. Dopo l’acquisto, lei aprì un gigantesco cantiere edile, il cui costo arriverà a sfiorare i 500 milioni al giorno, che in 4-5 anni edificherà l’area abitativa di Milano2. Tutto questo denaro chi gliel’ha dato, signor Berlusconi? Chi si nascondeva dietro le finanziarie di Lugano? Risponda.

 

2.

 

Il 22 maggio 1974 la sua società Edilnord Centri Residenziali Sas compì un aumento di capitale che così arrivò a 600 milioni di lire (4,8 miliardi di oggi. Fonte Istat). Il 22 luglio 1975 – un anno dopo – la medesima società eseguì un altro aumento di capitale passando dai suddetti seicento milioni a due miliardi (14 miliardi di oggi. Fonte Istat). Anche in questo caso, che è solo l’esempio di alcune delle tante e fortissime ricapitalizzazioni delle sue società, signor Berlusconi, vogliamo sapere da dove e da chi le sono pervenuti tali ingentissimi capitali in contanti. Se lei non lo spiega, signor Berlusconi, si è autorizzati a ritenere che sia denaro di dubbia origine, denaro dall’orribile odore.

 

3.

 

Il 2 febbraio 1973, lei, signor Berlusconi, fondò un’altra società: la Italcantieri Srl. Il 18 luglio 1975 questa sua piccola impresa diventò una Spa, con un aumento di capitale a 500 milioni. In seguito, quei 500 milioni diventeranno 2 miliardi, e lei farà in modo da emettere anche un prestito obbligazionario per altri 2 miliardi. Nell’arco di nemmeno tre anni, una sua società forte di un capitale di 20 milioni, appunto Italcantieri Srl, si trasformerà in un colosso, moltiplicando per 100 il suo patrimonio. Come fu possibile? Da dove prese, chi le diede, in che modo entrò in possesso, signor Berlusconi, di queste fortissime somme in contanti? Risponda. Lo spieghi.

 

4.

 

Il 15 settembre 1977 la sua società Edilnord Sas, signor Berlusconi, cedette alla neo-costituita Milano2 Spa tutto il costruito di Milano2 più alcune aree ancora da edificare. Tuttavia, quel giorno lei decise anche il contestuale cambiamento di nome della società acquirente. Infatti l’impresa Milano2 Spa cominciò a chiamarsi così proprio in quella data. Quando fu fondata a Roma, il 16 settembre ’74, rispondeva al nome Immobiliare San Martino Spa, «forte» di lire 1.000.000 di capitale e amministrata da Marcello Dell’Utri, il suo «segretario». Sempre il 15 settembre 1977, quel milione di salirà a 500, il 19 luglio 1978 a due miliardi. Un’altra volta: tutto questo denaro da dove arrivò?

 

5.

 

Signor Berlusconi, il cuore del suo impero, la notissima Fininvest, lei sa bene che nacque in due tappe. Il 21 marzo 1975 a Roma lei diede vita alla Fininvest Srl, venti milioni di capitale, che l’11 novembre diventeranno 2 miliardi con il contestuale trasferimento della sede a Milano. L’8 giugno 1978, ancora a Roma, lei fondò la Finanziaria di Investimento Srl, soliti 20 milioni, amministrata da Umberto Previti, padre del noto Cesare. Il 30 giugno 1978, quei venti milioni diventeranno 50, e il 7 dicembre 18 miliardi (81 miliardi di oggi). Il 26 gennaio 1979 le due «Fininvest» si fonderanno. Ebbene, questa gigantesca massa di capitali da dove arrivò, signor Berlusconi?

 

6.

 

Signor Berlusconi, lei almeno una volta sostenne che le 22 holding alla testa del suo impero societario vennero costituite da Umberto Previti per pagare meno tasse allo stato. Nessuno dubiterà mai più di queste sue affermazioni, quando lei spiegherà per quale ragione affidò consistenti quote delle suddette 22 holding alla società Par.Ma.Fid. di Milano, la medesima società fiduciaria che nel medesimo periodo gestì il patrimonio di Antonio Virgilio, finanziere di Cosa Nostra e grande riciclatore di soldi sporchi per conto di Alfredo e Giuseppe Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Carmelo Gaeta e altri boss della mafia siciliana operanti a Milano. Perché la Par.Ma.Fid.?

 

7.

 

E’ universalmente noto che lei, signor Berlusconi, come imprenditore è nato col «mattone» per poi approdare alla tivù. Ebbene, sul finire del 1979, lei diede incarico ad Adriano Galliani di girare l’Italia ad acquistare frequenze televisive, ed infatti Galliani si diede molto da fare. Iniziò dalla Sicilia, dove entrò in società con i fratelli Inzaranto di Misilmeri, frazione di Palermo, nella loro Retesicilia Srl. Soltanto che Giuseppe Inzaranto, neo-socio di Galliani, era anche marito della nipote prediletta di Tommaso Buscetta, che nel 1979 non è un «pentito», è un boss di prima grandezza. Questo lei lo sapeva, signor Berlusconi? Sapeva di aver sfiorato i vertici della mafia?

 

8.

 

E’ certo che a lei, signor Berlusconi, il nome dell’Immobiliare Romana Paltano non può risultare sconosciuto. Certo ricorda che nel 1974 la suddetta società, 12 milioni di capitale, finì sotto il suo controllo amministrata da Marcello Dell’Utri. Fu proprio sui terreni posseduti da questa immobiliare che lei edificherà Milano3. Così pure ricorderà, signor Berlusconi, che nel ’76 quel piccolo capitale di 12 milioni salirà a 500 e il 12 maggio 1977 a 1 miliardo. Inoltre lei modificherà anche il nome a questa impresa, che diventerà la notissima «Cantieri Riuniti Milanesi Spa». Ancora una volta: da dove prese, chi le fornì i 988 milioni (5 miliardi d’oggi) per quest’ennesima iniezione di soldi?

 

9.

 

Lei signor Berlusconi, certamente rammenta che il 4 maggio 1977 a Roma fondò l’Immobiliare Idra col capitale di 1 (un) milione. Questa società che possiede beni immobiliari pregiatissimi in Sardegna, l’anno successivo – era il 1978 – aumentò il proprio capitale a 900 milioni di lire in contanti. Signor Berlusconi, da dove arrivarono gli 899 milioni che fecero la differenza? E poi: da dove, da chi, perché lei entrò in possesso delle stratosferiche somme che le permisero di far intestare all’Immobiliare Idra proprietà in Costa Smeralda – ville e terreni – il cui valore è da contarsi in decine di miliardi? Dica la verità, signor Berlusconi. Sveli anche questo mistero impenetrabile.

 

10.

 

Signor Berlusconi, in più occasioni lei ha usato – vedi l’acquisto dell’attaccante Lentini dal Torino Calcio, ad esempio – la finanziaria di Chiasso denominata Fimo. Anche in questo caso, come in precedenza per la finanziaria Par.Ma.Fid., ha scelto una società fiduciaria al cui riguardo le cronache giudiziarie si sono largamente espresse. La Fimo, infatti, era la sede operativa di Giuseppe Lottusi, riciclatore di soldi sporchi dalla cosca dei Madonia, e Lottusi il 15 novembre del 1991 verrà condannato per questo a 20 anni di reclusione. Ebbene, la transazione per l’acquisto di Lentini, tramite la Fimo, avvenne nella primavera del 1992. Perché la Fimo, signor Berlusconi?

Link to post
Share on other sites
tutto "bello" e interessante..ma il problema è che alla meta' degli italiani non gliene puo' fregare di meno...questo è la fregatura...l'italiano medio pensa " cazzo mi fotte se quello è mafioso o ruba...lo farei anche...e anche le zoccole...fortunato lui!"....ecco il problema..

 

 

dove stai tu adesso parlate della situazione italiana? lì il Berlusca come viene percepito?

 

Guarda, il danese faccio ancora molta fatica a capirlo..ma le parole "Berlusconi, Italia" in questi giorni le sento spesso e volentieri...piu' che altro qua si riceve la BBC sulla televisione pubblica..e ti lascio immaginare come venga percepito il Gesu' del XXI secolo...

Link to post
Share on other sites

Questo articolo me l'ero perso,e al suo interno ci sono anche cose che non rammentavo,molto interessante.Ottima questa contro informazione,che non sposterà di una virgola nulla,ma per lo meno ai visitatori del sito dà un punto di vista obiettivo e reale.Che poi tra i leghisti ci sono un sacco di ex comunisti,gente che lavora con la propria terra,elettori persi con la scriteriata campagna politica degli ultimi anni.La Lega paradossalmente è stata piu vicina agli operai della cosiddetta sinistra,ed è stata premiata

Link to post
Share on other sites
trovato

 

da La Padania del 19 agosto '98

 

10 domande al Signor Berlusconi

 

1.

 

Il 26 settembre 1968, la sua Edilnord Sas acquistò dal conte Bonzi l’intera area dove lei, signor Berlusconi, edificherà Milano2. Lei pagò il terreno 4.250 lire al metro, per un totale di oltre tre miliardi di lire. Questa somma, nel ’68, quando lei aveva 32 anni e nessun patrimonio familiare a disposizione, era di enorme portata. Oggi, tabella Istat alla mano, equivarrebbe a oltre 38.739.000.000 lire. Dopo l’acquisto, lei aprì un gigantesco cantiere edile, il cui costo arriverà a sfiorare i 500 milioni al giorno, che in 4-5 anni edificherà l’area abitativa di Milano2. Tutto questo denaro chi gliel’ha dato, signor Berlusconi? Chi si nascondeva dietro le finanziarie di Lugano? Risponda.

 

2.

 

Il 22 maggio 1974 la sua società Edilnord Centri Residenziali Sas compì un aumento di capitale che così arrivò a 600 milioni di lire (4,8 miliardi di oggi. Fonte Istat). Il 22 luglio 1975 – un anno dopo – la medesima società eseguì un altro aumento di capitale passando dai suddetti seicento milioni a due miliardi (14 miliardi di oggi. Fonte Istat). Anche in questo caso, che è solo l’esempio di alcune delle tante e fortissime ricapitalizzazioni delle sue società, signor Berlusconi, vogliamo sapere da dove e da chi le sono pervenuti tali ingentissimi capitali in contanti. Se lei non lo spiega, signor Berlusconi, si è autorizzati a ritenere che sia denaro di dubbia origine, denaro dall’orribile odore.

 

3.

 

Il 2 febbraio 1973, lei, signor Berlusconi, fondò un’altra società: la Italcantieri Srl. Il 18 luglio 1975 questa sua piccola impresa diventò una Spa, con un aumento di capitale a 500 milioni. In seguito, quei 500 milioni diventeranno 2 miliardi, e lei farà in modo da emettere anche un prestito obbligazionario per altri 2 miliardi. Nell’arco di nemmeno tre anni, una sua società forte di un capitale di 20 milioni, appunto Italcantieri Srl, si trasformerà in un colosso, moltiplicando per 100 il suo patrimonio. Come fu possibile? Da dove prese, chi le diede, in che modo entrò in possesso, signor Berlusconi, di queste fortissime somme in contanti? Risponda. Lo spieghi.

 

4.

 

Il 15 settembre 1977 la sua società Edilnord Sas, signor Berlusconi, cedette alla neo-costituita Milano2 Spa tutto il costruito di Milano2 più alcune aree ancora da edificare. Tuttavia, quel giorno lei decise anche il contestuale cambiamento di nome della società acquirente. Infatti l’impresa Milano2 Spa cominciò a chiamarsi così proprio in quella data. Quando fu fondata a Roma, il 16 settembre ’74, rispondeva al nome Immobiliare San Martino Spa, «forte» di lire 1.000.000 di capitale e amministrata da Marcello Dell’Utri, il suo «segretario». Sempre il 15 settembre 1977, quel milione di salirà a 500, il 19 luglio 1978 a due miliardi. Un’altra volta: tutto questo denaro da dove arrivò?

 

5.

 

Signor Berlusconi, il cuore del suo impero, la notissima Fininvest, lei sa bene che nacque in due tappe. Il 21 marzo 1975 a Roma lei diede vita alla Fininvest Srl, venti milioni di capitale, che l’11 novembre diventeranno 2 miliardi con il contestuale trasferimento della sede a Milano. L’8 giugno 1978, ancora a Roma, lei fondò la Finanziaria di Investimento Srl, soliti 20 milioni, amministrata da Umberto Previti, padre del noto Cesare. Il 30 giugno 1978, quei venti milioni diventeranno 50, e il 7 dicembre 18 miliardi (81 miliardi di oggi). Il 26 gennaio 1979 le due «Fininvest» si fonderanno. Ebbene, questa gigantesca massa di capitali da dove arrivò, signor Berlusconi?

 

6.

 

Signor Berlusconi, lei almeno una volta sostenne che le 22 holding alla testa del suo impero societario vennero costituite da Umberto Previti per pagare meno tasse allo stato. Nessuno dubiterà mai più di queste sue affermazioni, quando lei spiegherà per quale ragione affidò consistenti quote delle suddette 22 holding alla società Par.Ma.Fid. di Milano, la medesima società fiduciaria che nel medesimo periodo gestì il patrimonio di Antonio Virgilio, finanziere di Cosa Nostra e grande riciclatore di soldi sporchi per conto di Alfredo e Giuseppe Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Carmelo Gaeta e altri boss della mafia siciliana operanti a Milano. Perché la Par.Ma.Fid.?

 

7.

 

E’ universalmente noto che lei, signor Berlusconi, come imprenditore è nato col «mattone» per poi approdare alla tivù. Ebbene, sul finire del 1979, lei diede incarico ad Adriano Galliani di girare l’Italia ad acquistare frequenze televisive, ed infatti Galliani si diede molto da fare. Iniziò dalla Sicilia, dove entrò in società con i fratelli Inzaranto di Misilmeri, frazione di Palermo, nella loro Retesicilia Srl. Soltanto che Giuseppe Inzaranto, neo-socio di Galliani, era anche marito della nipote prediletta di Tommaso Buscetta, che nel 1979 non è un «pentito», è un boss di prima grandezza. Questo lei lo sapeva, signor Berlusconi? Sapeva di aver sfiorato i vertici della mafia?

 

8.

 

E’ certo che a lei, signor Berlusconi, il nome dell’Immobiliare Romana Paltano non può risultare sconosciuto. Certo ricorda che nel 1974 la suddetta società, 12 milioni di capitale, finì sotto il suo controllo amministrata da Marcello Dell’Utri. Fu proprio sui terreni posseduti da questa immobiliare che lei edificherà Milano3. Così pure ricorderà, signor Berlusconi, che nel ’76 quel piccolo capitale di 12 milioni salirà a 500 e il 12 maggio 1977 a 1 miliardo. Inoltre lei modificherà anche il nome a questa impresa, che diventerà la notissima «Cantieri Riuniti Milanesi Spa». Ancora una volta: da dove prese, chi le fornì i 988 milioni (5 miliardi d’oggi) per quest’ennesima iniezione di soldi?

 

9.

 

Lei signor Berlusconi, certamente rammenta che il 4 maggio 1977 a Roma fondò l’Immobiliare Idra col capitale di 1 (un) milione. Questa società che possiede beni immobiliari pregiatissimi in Sardegna, l’anno successivo – era il 1978 – aumentò il proprio capitale a 900 milioni di lire in contanti. Signor Berlusconi, da dove arrivarono gli 899 milioni che fecero la differenza? E poi: da dove, da chi, perché lei entrò in possesso delle stratosferiche somme che le permisero di far intestare all’Immobiliare Idra proprietà in Costa Smeralda – ville e terreni – il cui valore è da contarsi in decine di miliardi? Dica la verità, signor Berlusconi. Sveli anche questo mistero impenetrabile.

 

10.

 

Signor Berlusconi, in più occasioni lei ha usato – vedi l’acquisto dell’attaccante Lentini dal Torino Calcio, ad esempio – la finanziaria di Chiasso denominata Fimo. Anche in questo caso, come in precedenza per la finanziaria Par.Ma.Fid., ha scelto una società fiduciaria al cui riguardo le cronache giudiziarie si sono largamente espresse. La Fimo, infatti, era la sede operativa di Giuseppe Lottusi, riciclatore di soldi sporchi dalla cosca dei Madonia, e Lottusi il 15 novembre del 1991 verrà condannato per questo a 20 anni di reclusione. Ebbene, la transazione per l’acquisto di Lentini, tramite la Fimo, avvenne nella primavera del 1992. Perché la Fimo, signor Berlusconi?

 

:inchino :inchino

 

..e lui che si lamentava delle domande dei COMUNISTI... :chetristezza

Link to post
Share on other sites
Guest
This topic is now closed to further replies.
  • Recently Browsing   0 members

    No registered users viewing this page.


×
×
  • Create New...

Important Information

By using this site, you agree to our Terms of Use & Privacy Policy.