Ron Artest Tribute by JayWill_22


 

Dopo la triste notizia dell’amnesty per Ron Ron, abbiamo chiesto ad uno dei soci fondatori della “Son of Ronarchy”, JAY_WILL21, di ricordare, a suo modo, i 4 anni di Artest in gialloviola: buona lettura !

Se provaste a chiedere ad un appassionato di basket qual’è la prima immagine che gli viene in mente, pensando a Ron Artest, potete essere certi che la risposta sarebbe compresa tra le seguenti opzioni:
1) La rissa del palace di Auburn Hills
2) La gomitata sul volto di Harden
3) L’essere stato il miglior difensore sull’uomo della sua generazione

L’unica eccezione sarebbe rappresentata da noi tifosi dei Lakers, che opteremmo senza indugio per la tripla scoccata a 62 secondi dal termine della Gara7 coi Boston Celtics. Quel tiro, preso senza coscienza e timore alcuno, è divenuto nel tempo la giocata simbolo del sedicesimo ed ultimo titolo gialloviola.
I meno superficiali di noi, andrebbero oltre ed estenderebbero a tutti quegli indimenticabili 48 minuti, la propria gratitudine nei confronti del figlio prediletto del Queens. Nessuno infatti dimenticherà che prima di “riprenderla” grazie a Fisher, e al ritrovato impatto fisico di Gasol, Odom e Bryant nel quarto periodo, quella partita l’aveva tenuta in vita letteralmente da solo Ron.
I 20 punti, 5 rimbalzi e 5 recuperi finali non spiegheranno mai abbastanza, a chi non ha avuto la fortuna di assistere a quel match, quanto sia stata provvidenziale la Presenza dell’allora numero 37. Ogni volta che sembravamo affondare, Ron Ron ci riportava in partita con una giocata d’energia, un rimbalzo d’attacco, un recupero, una difesa feroce su Paul Pierce o un canestro di vitale importanza. Nella regina delle gare senza domani, gli attori principali di quella squadra furono sopraffatti dalla enorme pressione, e toccò al più inatteso dei protagonisti, rimettere in carreggiata la partita dal -13
di inizio terzo quarto. Furono la sua ferocia agonistica e la sua volontà, ad impedire che la storia si ripetesse per l’ennesima volta, ed i Lakers uscissero nuovamente sconfitti in una gara7 contro gli odiatissimi rivali biancoverdi.
Ci sono voluti 41 anni per scrollarsi dalla spalla il King Kong di Don Nelson e della sua improbabile parabola vincente, non vi dico il sollievo nel realizzare che molto più raramente se non mai più, avremmo risentito parlare dei palloncini rimasti appesi al soffitto del Fabulous Forum. Tutto questo, signore e signori, grazie a lui, all’uomo oggi meglio noto come Metta World Peace.
Forse è un pò banale ma indubbiamente inevitabile partire da qui, perchè come per tutte le rockstars che si rispettino, anche Ron è legato indissolubilmente a quella che rimarrà la sua performance di maggior successo. Lui e gara7, sono e resteranno una cosa sola.

Tornando all’attualità, fa sensazione che a poco più di tre anni da quel leggendario 17 giugno 2010, il Managment dei Lakers abbia deciso di applicare proprio nei suoi confronti la amnesty clause, in parte per sgravarsi del suo oneroso contratto a livello di salary cap, e in parte – voglio immaginare che sia cosi – per risparmiargli la pena di un ultimo anonimo anno a Los Angeles, che nulla avrebbe aggiunto alla sua esperienza e alla sua carriera.
Dopo il gran rifiuto di Howard e l’avvio dell’inevitabile ricostruzione, la presenza di un combattente come Ron avrebbe avuto un senso molto relativo in una stagione che partirà senza Bryant e con un Gasol in non si sa quali condizioni, con il già “bruciato” Mike D’antoni in panchina e la netta impressione che perdere più partite possibile, sarebbe il minore dei mali, o per essere onesti, una sorta di benedizione, in vista del draft più ricco di talento e ambito dell’ultima decade.
Obiettivamente, quale ruolo avrebbe mai potuto rivestire un guerriero di quasi 34 anni, in una squadra senza particolari ambizioni e priva di qualunque cognizione difensiva, a livello di sistema? Nessuno, probabilmente, e citando un utente del forum, immagino i ragionamenti a quattr’occhi tra il General Manager, Mitch Kupchack, e l’allenatore Mike D’antoni, con quest’ultimo che indica nelle capacità difensive la “giusta” motivazione per disfarsi di Metta-Ron.
Seriamente e pragmaticamente parlando, comprendo le ragioni di questa scelta, ma non sarà semplice abituarsi all’idea che non vedremo più Ron indossare la nostra divisa, festeggiare una schiacciata o una tripla importante regalando baci alla folla o mostrando orgogliosamente i bicipiti.

Sarebbe comunque ingeneroso ridurre le quattro intense e controverse stagioni angelene di True Warrior, ad una sola partita, o alla prima annata , che pure è culminata con l’unico anello ottenuto in carriera. Quello non è stato altro che il lasciapassare per entrare nel cuore dei tifosi, anche quelli più scettici, che successivamente non gli hanno risparmiato critiche e maledizioni, ma non ci racconta tutto quello che di buono ha fatto MWP. Altrimenti, il club fondato da Ale77, il “Sons of Ronarchy”, sarebbe nato all’indomani di quella gara7, sull’onda delle sue imprese ai danni dei nemici celtici,
raccogliendo facili consensi, nemmeno fosse stato promesso l’abbattimento dell’IMU sulla prima casa.
No, Ron è (stato) tanto, tantissimo altro.
E’ colui che nel bel mezzo di una stagione incolore, iniziata sovrappeso a causa del lock-out, ti ribalta emotivamente il Derby coi Clippers del mancato Laker Chris Paul.
E’ quello che una volta infortunatosi Kobe, si reinventa All Star – che era già stato coi pacers, ma quanti se lo ricordano? – e per un mese viaggia su cifre irreali per tenere in rotta playoff la sua squadra.
Lo stesso che una volta rientrato il Mamba, sul finire della regular season, viene colto da un raptus di follia e colpisce duramente con una gomitata assassina James Harden, e per questo viene squalificato per 7 turni.
Li sconta, e torna giusto in tempo per togliere dalle sabbie mobili della serie coi Nuggets, i suoi Lakers. Ancora una gara7, ancora una prestazione cui il boxscore non potrà certo rendere giustizia. Contrariamente alla nostra memoria.
Ed è l’ultimo ad arrendersi anche nella serie successiva, dove tecnicamente non ci sarebbe storia, ma si arriva ad un passo dal 2-2 con gli atletici Thunder di Durant e Westbrook, anche grazie alla sua energia e al suo contributo, che mai viene a mancare, diversamente da quasi tutti i suoi compagni.

Come si fa a raccontare un uomo cosi in poche righe? Ron è il tipo che irrompe nello spogliatoio dei campioni del mondo in carica del 2009, e dichiara sin dall’inizio della sua avventura che a fine anno giungerà il bis, perchè il prezioso anello deve essere suo. Nessun problema se deve sostituire nel cuore dei tifosi il rimpianto Ariza – rimasto al palo a causa di un agente delirante, che in sede di rinnovo chiede cifre astronomiche e gioca al rialzo, col risultato di spalancare le porte dei Lakers allo stesso Artest -, l’obiettivo è chiaro, e nessuno può impedirgli di raggiungerlo.
Quando la finale di conference coi Suns si complica in maniera imprevista, è suo il buzzer beater che in gara5 spariglia le carte e consente a Los Angeles di evitare di giocarsi le NBA Finals nella roulette russa di un drammatico supplementare.
Proprio come nella serie successiva, è suo il marchio decisivo nella Pivotal Game, l’agognato gioiello di Campione NBA finisce nelle sue mani. Peccato che una volta entratone in possesso – qui c’è tutto Ron -, lo rivende all’asta per la bellezza di 650.000 dollari, destinando il ricavato in beneficienza. Il duro dall’animo nobile, i due lati opposti di un’unica medaglia.

Sulla sua ultima stagione con la nostra jersey, preferisco glissare: nel giorno in cui salutiamo uno degli uomini più rappresentativi dell’ultimo lustro, sarebbe un peccato tornare sulle tante vicissitudini negative che hanno portato all’attuale limbo in cui si ritrova la franchigia. La morte del Dottor Buss, sostanzialmente Mr.Lakers, ha dato il via ad una catena di situazioni negative iniziate proprio con l’infortunio che ha messo fuori gioco Ron e successivamente Kobe nel finale di stagione, terminando in bellezza la settimana scorsa con il Dwightmare 2.0.
L’eccellente avvio di campionato del numero 15, è tristemente passato sotto silenzio, tra cambi di allenatore ed infortuni eccellenti, liti di spogliatoio e risultati che eufemisticamente potrei definire al di sotto di ogni più pessimistica aspettativa.

Non è cosi che voglio ricordarmi del prodotto di St John’s che per rendere onore a Dennis Rodman, quando giocava nei Pacers, indossò il mitico numero 91. Unico a farlo, a mia memoria, e non è un caso.
Come non è una coincidenza che chi ha venerato The Worm, sia portato istintivamente a provare simpatia per il fu Ron Artest, e viceversa. Pur con le nette differenze fisiche e di ruolo, i due giocatori di culto per eccellenza degli ultimi decenni, sono legati da un agonismo, una fisicità e una cattiveria senza eguali, lo stesso dna vincente, ma anche la medesima bipolarità che li fa costantemente camminare sul filo del rasoio, tra successo e autodistruzione, un confine che non di
rado entrambi hanno oltrepassato, nel corso della loro esistenza.

Adesso è probabilmente venuto il tempo di voltare pagina, ma prima o dopo non ho dubbi che sentiremo la sua mancanza. Quando in un match punto a punto, non arriverà la solita palla rubata, la consueta giocata d’inerzia, sulla quale un Ronarchico scommetterebbe dalla palla a due, ci accorgeremo che manca il numero 15 sul parquet.
Aldilà del naturale calo fisico, per un classe ’79, un uomo e un giocatore come lui avrebbe meritato un finale migliore, che per superficialità o incapacità, i Lakers come organizzazione non sono stati in grado di garantirgli. Esattamente come a Fisher, Jackson ed Horry, tutti “Lakers for life” osannati e idolatrati, usciti mestamente dalla porta di servizio.
Ciao Ron, le note del tuo “Champions” saranno per sempre la colonna sonora del sedicesimo.

Jaywill_22


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