I Lakers del ’95 e quella pazza notte all’Alamo


«Stavo per tirare, ma ho visto che mancavano quattro secondi e ho pensato fosse meglio passarla a Nick» – Vlade Divac

Quello che seguirà è uno dei più incredibili buzzer beater della storia dei Lakers, pur non portando a un titolo, e neanche a vincere una serie in realtà. Ma chi ha più di trent’anni non può non ricordare quella notte in cui Van Exel mise due tiri decisivi con i quali prima forzò l’overtime e poi vinse la partita con i Lakers spalle al muro sotto 3-1 contro gli strafavoriti Spurs; una notte che rappresenta al meglio un’edizione dei Lakers, quella 1995, che più è rimasta nei cuori degli appassionati gialloviola, escludendo ovviamente quelle che hanno portato a casa un Larry O’Brien Trophy. Una squadra capace di divertire, coinvolgere e andare ripetutamente contro la logica dei pronostici, facendo rivivere al Forum atmosfere dimenticate dopo il doloroso addio di Magic.

Nel 1993-94 i Lakers falliscono per la prima volta in diciannove anni l’accesso ai playoff. Logica conseguenza di una squadra orfana improvvisamente di Magic Johnson dal 1991, un ritiro che ha portato una decisa accelerata anche al crepuscolo degli altri protagonisti dello Showtime, con Worthy ritiratosi nel 1993 e Byron Scott emigrato a Indiana a fare da tappabuchi a Reggie Miller.

La franchigia ha fortunatamente Jerry West a dirigere le operazioni: ha in mente un piano ben preciso per tornare ai vertici, lo ha inquadrato già nel 1992 quando Shaquille O’Neal appena scelto dai Magic inizia a fare storie in fase di firma contrattuale, chiedendo di poter giocare per i Lakers e minacciando di andare a giocare in Europa. West ha capito che dovrà puntare all’estate del 1996, quando O’Neal diverrà free agent, cercando di avere una squadra che sia allo stesso tempo forte e futuribile. E il suo lavoro di scouting ha già iniziato a dare i primi frutti.

Nel 1989 porta in California il centro jugoslavo Vlade Divac, divenendo uno dei primi executive Nba a puntare davvero su un giocatore europeo, al quale affida il dopo Kareem, e con il quale disputerà l’ultima finale dell’era Magic nel 1991 contro i Bulls. Nel roster di quella squadra gioca, poco in realtà, anche Elden Campbell, ala forte da Clemson scelto alla 27 del draft del 1990, ragazzo di casa nato e cresciuto a Los Angeles. Campbell cresce di anno in anno in modo importante, è un ottimo rimbalzista e un’egregia presenza offensiva in post basso, sembra fatto apposta per giocare insieme a Divac, che invece ama svariare lontano da canestro con le sue dolci mani.

L’incredibile occhio di West per il talento lo porta a selezionare nel draft del 1993 la point guard da Cincinnati Nick Van Exel alla numero 37, reduce da due ottime stagioni sotto la guida di coach Huggins per i Bearcats (una Final Four nel 1992), ma sul quale girano voci poco rassicuranti riguardo il suo presunto carattere fumantino. Voci che lo fanno precipitare al draft, insieme a una scarsa considerazione da parte degli scout, dovuta probabilmente all’aver passato i primi due anni di carriera collegiale in una scuola di preparazione a causa dei voti troppo bassi per accedere alla Division I. Nick “The Quick”, come verrà presto ribattezzato, è titolare già dalla sua prima stagione vista la situazione di rebuilding, e ripaga la fiducia di West con 13.6 punti e 5.8 assist a partita, meritandosi l’inclusione nel secondo All Rookie Team.

Van Exel in una delle sue tipiche esultanze

 

Il 1994 porta in dote ai Lakers una scelta in lottery, la 10 per la precisione, che il front office decide di tramutare in Eddie Jones, guardia junior classe ’71 da Temple, nella natia Philadelphia, dove è stato appena eletto giocatore dell’anno nell’Atlantic 10. Molto atletico, poco fisico, grande difensore e buon realizzatore le sue referenze in uscita dal college, diverrà poi negli anni un uomo da tre presenze all’All Star Game e grande terminale offensivo a Charlotte e Miami.

A questo punto manca solo un uomo in grado di portare punti tutte le sere con continuità, che riesca a sgravare i più giovani dalla pressione e dalle responsabilità offensive, che abbia una buona esperienza nella lega. West lo individua in Cedric Ceballos, 25enne ala piccola dei Phoenix Suns. Nel 1993 è per gran parte della stagione l’ala piccola titolare dei Suns che poi contenderanno il titolo ai Bulls, ma si ruppe il braccio proprio alla vigilia dei quei playoff, e il suo sostituto, il rookie Richard Dumas, giocò una pallacanestro incredibile non facendolo mai rimpiangere. Una pallacanestro che non fece mai più vedere, divorato dai suoi problemi con la droga. L’anno seguente Ceballos ha problemi fisici e i Suns preferiscono andare con l’assetto con la doppia power forward con AC Green insieme a Barkley. È così che il 23 settembre 1994 i Lakers lo acquisiscono in cambio della prima scelta dell’anno seguente (che si tramuterà in Michael Finley); mossa rischiosa per una squadra appena reduce da un viaggio in lottery.

Van Exel, Jones, Ceballos, Campbell, Divac. Non sarà il mitico Sarti, Burgnich, Facchetti… Ma per i tifosi Lakers anni ’90 questo quintetto è di eguale culto. E il motivo principale è proprio la stagione 1994-95…

 

E in panchina? La travagliata stagione 1993-94 aveva portato all’esonero sul 27-37 di Randy Pfund, che l’anno precedente aveva guidato i Lakers a una dignitosissima uscita al primo turno proprio contro i Suns. Esonero in realtà spinto da Magic Johnson, che aveva confessato a Jerry Buss la volontà di allenare, e il Dottore non è mai riuscito a dire no alla sua stella preferita, un figlio adottivo. Magic vinse cinque delle prime sei partite, poi perse le dieci restanti fino al termine della stagione, salutando la compagnia con un eloquente: «Queste sedici partite sono tutto quello che avrò fatto da allenatore, non tornerò per il prossimo anno»; meglio così per tutti.

La scelta di Buss e West è in un certo qual modo rivoluzionaria: Del Harris. Era dai tempi di Bill Sharman che ai Lakers non si ingaggiava un coach che non fosse un rookie (tradizione recentemente rinverdita…). Dopo il grande successo di Pat Riley, i buoni risultati di Dunleavy dopo gli anni da vice ai Bucks ai quali tornò a fare il capo nel 1992,  le alterne fortune di Pfund e quelle decisamente scarse di Magic, si opta per un coach dalla grande esperienza, un 56enne con i capelli bianchi che ben presto gli varranno il paragone con Leslie Nielsen. Nove anni di panchine da head coach tra Houston (Finali nel 1981 contro i Celtics) e Bucks, dove venne esonerato dopo diciassette gare della stagione 1991-92.

I 56 anni e i due di inattività fanno un po’ storcere la bocca alla critica, ma West e Buss si dicono sicuri della loro scelta e la difendono a spada tratta. A Harris vengono imputati un gioco troppo lento e noioso (c’è chi lo chiama “Dull” Harris), improntato troppo sulla difesa, e un’età troppo alta per riuscire a relazionarsi con un roster così giovane come quello che sta per allenare. Lui già dalla conferenza di presentazione prova a difendersi dicendo che in passato ha allenato anche squadre da 100 punti a partita, e che un coach da sempre celebrato per l’attacco come Riley è invece oramai conosciuto come un maestro difensivo, dimostrando che un allenatore è in grado di poter abbracciare diverse filosofie. L’età non sarà un problema, sostiene, ha un figlio di quattro anni e non si sente uno di quegli uomini che a 50 anni smettono di vivere dando la sensazione di essere morti dentro. Finirà con l’essere nominato Coach of the Year…

 

La stagione non inizia in realtà nel migliore dei modi: i Lakers partono con solo tre vittorie nelle prime otto partite (eh lo so, oggi ci metteremmo la firma, mala tempora currunt) e tutto fa credere che non sarà certo un’annata particolarmente più esaltante rispetto a quella che l’ha preceduta. Nella nona gara però, una vittoria di misura con i Cavs, Harris decide di dare una svolta e opta per il doppio lungo, mettendo in panchina Lynch e lanciando Campbell di fianco a Divac sotto canestro. I Lakers vincono dieci delle successive dodici partite diventando a tutti gli effetti una delle sorprese della lega. Andando contro i dubbi della critica a inizio anno, i ragazzi di Harris giocano un basket veloce e imprevedibile guidati dalle scorribande di Van Exel, soprattutto in casa, ma non disdegnano certo neanche le situazioni di isolamento a metà campo per i loro lunghi principalmente nelle gare in trasferta. Il mix funziona e arrivano le vittorie, e insieme a esse la crescita dei singoli: Ceballos riesce finalmente a diventare quell’uomo da oltre venti punti di media (21.7 ai quali aggiunge 8 rimbalzi che gli valgono la prima e unica convocazione all’All Star Game, che non giocherà causa infortunio) facendo vincere la scommessa a West. E non sarà l’unica: con 16.9 punti e 8.3 assist Van Exel emerge come uno dei migliori play dell’Nba; Divac gioca probabilmente la miglior stagione in carriera, chiudendo a 16 punti, 10.4 rimbalzi e 4.1 assist che ne fanno la seconda fonte di gioco dopo Van Exel, il play occulto, ma neanche tanto, dalle mani del quale iniziano tanti giochi. Lo stesso Jones a 14 di media (più 2 rubate) conferma le attese sulla sua stagione da rookie. Non a caso West a fine anno riesce finalmente a vincere l’Executive Of The Year, sembra incredibile non lo avesse mai vinto prima nonostante fosse unanimemente riconosciuto come il migliore, probabilmente pagando per una squadra troppo forte come quella degli anni ’80, come se si fosse costruita da sé.

Al Forum i tifosi ricominciano ad andare con entusiasmo, e tornano a farsi vedere anche le stelle del cinema e della musica che lo avevano popolato nell’epoca dello Showtime. Non solo i Lakers vincono e segnano tanto (105.1 ppg, settimi nella lega), ma le loro partite sono spesso tra le più coinvolgenti da guardare. Arrivano a giocare in overtime per sette volte (due delle quali in doppio ot), vincendone cinque, dimostrando una certa predisposizione quando le gare iniziano a scaldarsi. Le soddisfazioni insomma non mancano, e la ciliegina sulla torta è la vittoria a Boston il 20 gennaio per 120-118. Partita significativa perché è l’ultimo Celtics-Lakers di sempre giocato nello storico Boston Garden. Chi ha risolto questa sfida? Che domande…

 

Con la stagione che viaggia a vele spiegate e l’obiettivo insperato delle 50 vittorie oramai a un passo, qualcosa sembra però guastarsi. Proprio nel finale i Lakers chiudono con 1-7 che li fa fermare a 48 vittorie, mentre il seed per i playoff è il quinto, già acquisito da tempo, irraggiungibili le posizioni dalla quarta in su. L’avversario nel primo turno, allora al meglio delle cinque gare, saranno i fortissimi Seattle Supersonics di Gary Payton e Shawn Kemp, reduci da una campagna da 57 vittorie e vogliosi di rivincita dopo il clamoroso flop della stagione precedente, quando dopo 63 vittorie uscirono al primo turno da grandi favoriti per il titolo, facendosi rimontare un 2-0 contro i Denver Nuggets e diventando la prima squadra della storia con il seed #1 a uscire contro la #8.

Insomma le premesse non sono delle migliori e purtroppo gara1 non fa che confermare le previsioni negative sull’esito della serie. Harris decide di cambiare qualcosa facendo partire in quintetto Peeler in luogo di Jones, ma Seattle passeggia 96-71 e i Lakers devono anche registrare l’infortunio del play di riserva, e settimo uomo della panchina di Harris, Sedale Threatt, al quale viene subito detto che il resto dei playoff dovrà guardarselo in borghese. Tutti sono pronti ad archiviare la stagione dei gialloviola come positiva dal punto di vista della ricostruzione, ma certo con delle lacune sotto il profilo dell’esperienza che hanno portato a un finale di stagione molto deficitario.

 

A questo punto la leggenda narra di un Cedric Ceballos che la notte seguente a gara1 riesce a fatica a prendere sonno, e quel poco che riesce ad avere è piuttosto agitato. Ha paura che la gente si accorga che non è un giocatore abbastanza forte come aveva fatto credere, che in realtà è un giocatore mediocre e ora lo avranno scoperto tutti dopo quella partita.

Saranno stati i dubbi e le paure, o la voglia di riscattarsi probabilmente, ma Ceballos in gara2 mette a referto 25 punti con 6/9 da tre ed è nettamente l’mvp di una partita che i Lakers portano a casa 84-82 sorprendendo tutto l’ovest. Il piano partita di Harris ha previsto un gioco a metà campo lento, con palla martellata costantemente sotto ai due lunghi. George Karl, coach avversario, decide di raddoppiare puntualmente Divac in ogni possesso del primo quarto, ma lo fa in modo scriteriato, senza metodo, e il centro serbo spiega pallacanestro trovando puntualmente il tiratore libero (chiuderà la gara con 6 assist). Karl decide quindi di tornare sui suoi passi dopo il primo quarto ma i Lakers intanto hanno costruito un vantaggio (30-22) che dà loro fiducia per tutta la gara. Con Van Exel che non può mai uscire dal campo e soli tre uomini dalla panchina, arriva inevitabile nel secondo tempo il momento di blackout sotto la pressione dei Sonics, ma la difesa tiene in modo commovente negli ultimi cinque minuti resistendo agli assalti disordinati degli uomini di Karl. Il fattore campo è strappato.

 

Gara3 è la classica partita che sull’1-1 vede la squadra di casa giocare a ritmi altissimi (totalmente dimenticata la pallacanestro a metà campo di Seattle), partendo forte cercando di scoraggiare ogni velleità degli ospiti. Non inganni il 105-101 finale, i Lakers dopo il primo periodo chiuso sul 34-22 non si sono mai più guardati dietro, regalando al Forum una partita davvero degna dello Showtime, con Van Exel a guidare le danze con 23 punti, 4 rimbalzi, 6 assist e Ceballos ancora decisivo da 24 punti, 8 rimbalzi e 6 assist. Anche Divac non fa mancare il suo apporto con 20 punti, 9 rimbalzi e 4 assist in una serata che vede i gialloviola con sette uomini in doppia cifra portarsi avanti sul 2-1 nella serie, contro una Seattle apparsa piuttosto disorientata in difesa, che ha cercato di aggrapparsi a un immenso Kemp (30 e 11) lasciato però da solo.

Ora per Karl e i suoi tornano i fantasmi del passato, il rischio di una clamorosa eliminazione al primo turno per il secondo anno di fila; ma i Lakers sono una squadra giovane ed è tutto da vedere se riusciranno a gestire la pressione data dal chiudere la serie evitando una problematica gara5 in trasferta.

 

La quarta sfida è una di quelle partite che se fossimo in annata da titolo ricorderemmo per sempre. Harris viene premiato Coach of the Year, ma i Lakers sembrano sentire molto il peso di poter scrivere una pagina importante nella storia della loro stagione, e non riescono a replicare l’inizio folgorante della sfida precedente. Provano a mantenere i ritmi alti ma non creano nient’altro che confusione; Seattle invece è ordinata nel far girare la palla e precisa nel punire da fuori, dopo pochi istanti di secondo quarto conduce 26-38. Nel secondo quarto, però, Van Exel (ancora una volta 48 minuti filati) dimostra di aver capito che è questa la sua occasione per provare a entrare nella storia di questa franchigia, e segna 16 punti con 4 triple, facendo esplodere il forum e riportando i Lakers a contatto all’intervallo sul 55-59, nonostante la difesa continui a scricchiolare.

Van Exel leggermente on fire rimette in piedi la baracca

 

I Sonics riescono però a rimanere concentrati, continuano a far girare la palla e a punire tutti i raddoppi (un po’ senza senso in verità) alzando addirittura le percentuali rispetto al primo tempo, ancora una volta è solo Van Exel (9 punti nel quarto) a provare a tenere a galla la barca, ma i problemi di falli di Divac lasciano il centro seduto per molti minuti e i Sonics vanno all’ultimo riposo avanti 82-90. Per usare un facile luogo comune dello sport americano, a questo punto i Lakers si rendono conto di aver fatto davvero troppa strada per fermarsi a dodici minuti dalla fine: entrano in campo dando tutto, fanno subito un 8-1 che li porta a contatto mentre la bolgia del Forum diventa insostenibile per qualsiasi essere umano che non abbia sangue gialloviola. Karl prova a giocarsi la carta del quintetto piccolo, ma Divac (23 punti, 11 rimbalzi e 6 assist) inizia a dominare la partita. Gli ultimi minuti punto a punto si torna a giocare a metà campo per i lunghi da tutte e due le parti, si sbagliano molti liberi, ed è una gara a chi riesce a sbagliare meno mentre la tensione la fa da padrona. A sbagliare meno sono proprio i Lakers: Campbell subisce fallo a rimbalzo a 31 secondi dalla fine, fa 2/2 dalla lunetta, dall’altra parte Perkins prende un tiro senza senso che non entra e pone fine alla serie. Finisce 114-110 in un Forum ribollente di gioia. Van Exel assurge a stella alla sua seconda stagione Nba chiudendo con 34 punti (7/13 da tre), 6 rimbalzi e 9 assist. Ha giocato una serie clamorosa: in campo per 45.8 minuti di media ha viaggiato a 24.8 punti e 5 assist contro Gary Payton. Anche Ceballos riesce a togliersi la scimmia dalla schiena, con 22 punti di media nelle tre vittorie dei suoi.

I momenti finali della serie

 

A quattro anni dall’ultima Finale giocata nel 1991, i Lakers sono di nuovo sulla bocca di tutti. Non più perché sono i grandi favoriti e stanno spazzando via l’ovest, ma perché si trovano nell’insolita posizione di essere la grande outsider, la sorpresa. Per la prima volta arrivano quasi a essere squadra simpatia per i tifosi neutrali, con un gruppo guidato da due rinnegati, un centro europeo, un rookie e un allenatore etichettato come bollito nel migliore dei casi. La colonna sonora di questi Lakers non può non essere “This Is How We Do It”, singolo d’esordio del losangelino Montell Jordan, che domina la Billboard 100 dal 15 aprile al 27 maggio, accompagnando proprio le avventure della squadra con un titolo che sembra riflettere lo stile di gioco di Van Exel e compagni (ma per pietà vi risparmio di postarvi il video, essendo rap. Beccatevi la copertina del cd).

 

Dopo l’impresa contro Seattle arriva anche la copertina di Sports Illustrated per la squadra più in voga del momento…

E ora? Ad aspettare i Lakers ci sono i San Antonio Spurs dell’Mvp della lega, David Robinson, reduci da una stagione da 62 vittorie che è valso loro il miglior record di tutta la lega e l’opportunità di giocare col fattore campo tutti i playoff, Finals eventuali incluse. A San Antonio sono tutti convinti che possa essere finalmente l’anno giusto per vincere, e i Lakers al secondo turno di certo non spaventano, nonostante l’upset contro Seattle.

L’unica incognita in casa neroargento si chiama Dennis Rodman: finita l’avventura ai Pistons non riesce a entrare in sintonia con la città, l’ambiente da buona famiglia che regna nella squadra, e ha una pessima stima di coach Bob Hill, il quale ha principalmente la colpa di non essere Chuk Daly. Ma soprattutto non riesce a sopportare David Robinson, per il quale un paio d’anni dopo non avrà certo buone parole nella sua autobiografia, definendolo in poche parole un codardo in campo e come leader. Rodman oltretutto in quel periodo è sulla bocca di tutti gli Stati Uniti per la sua storia con Madonna, le fughe improvvise per incontrarsi con la cantante in quella che sembra essere una relazione di puro sesso e poco altro; un ulteriore elemento che non va a genio alla comunità di San Antonio, non abituata a scandali e gossip. Ma quando poi si gioca Rodman si conferma il solito maestro, cattura la consueta valanga di rimbalzi (16.8, sì avete letto bene: 16.8 in 32 minuti, praticamente prende rimbalzi anche dormendo dall’alto dei suoi due metri scarsi, e non è neanche massimo in carriera) e copre le spalle a Robinson andandosi sempre a marcare il lungo avversario più forte… Se ritiene giusto farlo…

Quanto amore…

 

L’inizio della serie è sulla falsariga del primo turno: gli Spurs hanno vita facile dei Lakers (110-94) grazie a un Robinson da 33 e 11 rimbalzi e alla doppia doppia di Avery Johnson (19 con 12 assist). In casa lacustre bene solo Campbell (29, 10 e 4 stoppate) e Divac (25 e 11), appena decente Van Exel (16 con 12 assist), mentre tutti gli altri giocano una partita oscena (Ceballos 3/10).

Proprio come nella sfida con i Sonics, è in gara2 che i Lakers provano a giocarsi il jolly per strappare il fattore campo. Campbell (25 e 18) e Jones (20 e 7 sempre dalla panchina) guidano gli uomini di Harris, che però questa volta l’impresa la sfiorano solamente: Divac sbaglia i due liberi del successo a quattro secondi dalla fine, e nell’overtime gli Spurs prendono possesso della partita chiudendo 97-90. Ancora troppo poco Ceballos (1/5 dal campo, presenza impalpabile) per sperare di vincere una partita con un avversario così importante, eppure i Lakers ci sono andati davvero vicino.

Anche il copione della terza sfida non differisce dalla serie precedente. I Lakers partono forte sull’onda dell’entusiasmo casalingo, chiudono il primo quarto sul 28-11 e non guardano più lo specchietto retrovisore fino al 92-85 finale, complici anche degli Spurs appagati dal 2-0 nella serie, che riescono ad avere una prestazione importante solo dall’immancabile Robinson (34 e 13). In casa gialloviola torna a brillare Ceballos (22 e 10) e c’è di nuovo un grande Van Exel (25 e 8 assist).

Sean Elliott non si fa scoraggiare dalla battuta d’arresto: «I Lakers faranno bene a godersi questa vittoria perché già dalla prossima le vacanze finiranno, si tornerà alla normalità». In casa Spurs però tiene sempre banco il caso Rodman: si è rifiutato di partecipare all’huddle di squadra rimanendosene seduto per terra e senza scarpe durante un time out. Sempre più scollato dalla squadra, verrà punito.

 

Gara4 dà purtroppo ragione a Elliott. Gli Spurs non fanno partire Rodman in quintetto (questa la punizione) sostituendolo col vecchio Terry Cummings, si impadroniscono della partita già dal primo periodo chiuso avanti 27-17 e manterranno il vantaggio fino all’80-71 finale, sfruttando la pessima serata di tutti i Lakers, capitanati nell’orrore da Van Exel (4/16). Per Los Angeles è la fine del sogno, caduta sotto i colpi della pressione e di un avversario decisamente più forte. San Antonio ottiene quello che voleva, una vittoria a Los Angeles per portarsi 3-1 nella serie e chiudere poi in casa aspettando la vincitrice della battaglia senza esclusione di colpi tra Suns e Rockets. Coach Hill rivela che la punizione per Rodman era non partire in quintetto, ma con la partita che si è messa bene ha deciso di non farlo entrare, tramutando in un’esclusione la punizione. Un modo di gestire la disciplina assai pericoloso, che infatti gli si ritorcerà contro. Rodman non nasconde un certo disappunto: «Credo sia stata esagerata ma va bene, mi aspetto di giocare la prossima perché altrimenti sarebbe una punizione ingiusta».

 

«Io non sono pronto ad andare a casa» Nick Van Exel, 15 maggio 1995.

Gara5 è fissata per il 16 maggio all’Alamodome. Per tutta la lega stiamo già parlando di una serie morta. I giornalisti di Los Angeles danno i Lakers comprensibilmente per spacciati dopo la brutta sconfitta dell’ultima partita, che avrà presumibilmente portato il morale sotto i tacchi. Addirittura si scrive che l’Alamo per i Lakers è un palazzo più ostile del Boston Garden negli anni ’80, con le finestre degli spogliatoi aperte d’inverno e le maschere per l’ossigeno in estate per riuscire a respirare. Non hanno tutti i torti: al momento della palla a due, il record all time dei Lakers in quel palazzo (inaugurato la stagione precedente) recita un eloquente 0-6, con 93.2 punti segnati di media frutto di un pietoso 40.8% dal campo.

Rodman è nuovamente fuori dal quintetto, Harris non propone variazioni. Come sempre in trasferta i Lakers hanno un piano partita che prevede gioco a metà campo e tanti isolamenti dei quali usufruiscono principalmente Campbell (17) per tenere impegnato Robinson, e Ceballos che molto preciso al tiro ne mette 19 nel primo tempo. Gli Spurs sono invece imprecisi e soprattutto molto fallosi, concedono un parziale di 12-0 che consente a Los Angeles di chiudere il primo quarto avanti 29-24. L’ingresso di Rodman? Un fallo e un tecnico nel giro di un secondo nonostante a commentare la partita in diretta nazionale ci sia Chuk Daly, il suo padre putativo.

Quello che colpisce dei Lakers è la totale assenza di paura, magari dettata dalla giovane età, magari dal non aver nulla da perdere, ma quando toccano il +13 nel secondo quarto e si fanno rimontare perdendo tanti palloni stupidi tramutati in facili contropiedi, sorprende il loro non uscire con la  testa dalla partita, andando comunque all’intervallo avanti 55-49. La partita non è bella, ci sono tanti errori, è molto lenta, e si fischia tantissimo.

Il 1994-95 è il primo anno dopo il cambio della regola sull’hand-cheking. Con l’imperversare del gioco estremamente duro e fisico di squadre come i Knicks di Riley (nei video dimostrativi per spiegare la nuova regola l’ufficio Nba mise quasi solo immagini delle difese di New York, facendo infuriare il coach ex Lakers, che accusò Stern di remare chiaramente contro la sua squadra), la lega decise di cambiare qualcosa, rendendo praticamente illegale l’hand-checking, con l’intento di permettere un gioco più offensivo ostacolando le difese. I punteggi bassi e il calo di interesse nel post Jordan (rientrò proprio a marzo ’95) preoccupò a tal punto Stern da fargli venire in mente di diminuire la distanza del tiro da tre, sempre nell’estate del 1994: da 7,23 si passò a 6,75. Tutti i due cambiamenti si rivelarono un boomerang: le nuove regole difensive portarono solo a spezzettare ulteriormente il gioco a forza di fischi; il tiro da tre ravvicinato iniziò a far ingolosire giocatori che prima non pensavano minimamente ad azzardare quella conclusione, con conseguente abbassamento delle percentuali. Tre anni dopo si ritornò ai 7,23.

Il terzo quarto è la prova certificata che avremo una partita e che i Lakers se la giocheranno fino in fondo. Rodman stavolta parte in quintetto, prende subito Campbell in difesa e inizia a giocare una grande gara, finalmente onorando la presenza di Daly a bordo campo. Harris deve fare i conti con un Divac impalpabile in attacco e un Ceballos che dagli spogliatoi ha mandato in campo il fratello (1 punto dopo l’intervallo). San Antonio agguanta la parità a metà periodo, 63-63, mentre i Lakers non segnano più. Ma ancora una volta è proprio quando sembrano al tappeto che i gialloviola riescono a trovare inspiegabili risorse e a reagire: stavolta è Eddie Jones a uscire dal cilindro di Harris, e con tre triple aiuta i suoi a finire avanti anche questo quarto, 76-69.

Mentre Robinson da una parte e Van Exel dall’altra non escono mai dal campo (1 minuto in panchina il primo, nessuno per il play da Cincinnati), i Lakers accusano un passaggio a vuoto devastante, non segnano per sei minuti e mezzo, a 3:30 dalla fine sono sotto 83-80 e sembrano proprio la tipica squadra che dopo un bel tentativo sta per lasciare la stagione con una prova dignitosa. Harris continua a ordinare ai suoi di giocare sempre palla sotto, il bonus ci tiene in vita e oramai si va punto a punto fino alla fine. Sull’88-85 a 35 secondi Van Exel sbaglia un libero, ma Rivers dall’altra parte fallisce la tripla che chiuderebbe partita e serie.

Ceballos prende il rimbalzo e supera la metà campo, poi la passa immediatamente a Van Exel, Harris chiama time out… O meglio: fa cenno ai suoi di chiamare time out. Van Exel non lo vede, o almeno così sosterrà a fine gara, e con dieci secondi sul cronometro fa palleggio arresto e tiro da otto metri con Avery Johnson in faccia, è il tiro della stagione… Solo rete, 88-88. Dall’altra parte Johnson mette in piedi poco più di un tiraccio, siamo all’overtime per la seconda volta nella serie, nona in stagione.

I minuti finali del quarto periodo

 

Del Harris ha giocato il finale con Eddie Jones in campo, e lo tiene dentro anche per tutti i supplementari, che però all’inizio sembrano prendere la strada decisa del Texas. A 2:20 gli Spurs conducono 96-91, Van Exel accorcia subito, poi Jones ruba palla per Ceballos che segna solo un tiro libero, ma in difesa continua a tenere e dopo un errore di Robinson (34 e 17 per lui alla fine) questa volta i Lakers sì che chiamano timeout a 18 secondi dalla fine, sotto di un punto 96-95. Harris ordina, neanche a dirlo, un isolamento per Campbell in post basso: Elden lo gioca molto bene, marcato da Robinson prende il centro dell’area, lo fa saltare con una finta, si svita sul perno e appoggia in sottomano. Dentro… E poi fuori. Ceballos è pronto di riflessi e va a toccare il pallone, non sa bene in che modo possa essere utile, ma lo tocca perché sa che qualcosa può succedere. La sfera arriva nei pressi di Divac, il serbo riesce a controllare (a differenza di quello che gli accadrà nel 2002 in maglia Kings proprio contro i Lakers), la prende in mano e a quattro secondi dalla fine senza guardare il canestro la passa fuori a Van Exel. Il cronometro scorre veloce, Nick ha due avversari vicino e fa una pensata tanto originale quanto giusta: effettua un terzotempo partendo da otto metri, sullo slancio gli avversari non lo sfiorano, potrebbero essere tre tiri liberi, lui come un saltatore in lungo al secondo appoggio va più alto che può per avvicinarsi alla linea il più possibile, rilascia la palla con la sua mancina e questa si deposita diretta nel canestro. Manca mezzo secondo e i Lakers sono avanti 98-96. Van Exel ha appena segnato il suo secondo canestro allo scadere della serata. Bob Hill chiama timeout, ma il tiro di Elliott è ovviamente un proforma.

Le fasi finali della partita

 

Contro ogni logica previsione, i Lakers hanno di nuovo sorpreso tutti e vinto la prima partita della loro storia all’Alamodome. È il 16 maggio 1995, tre giorni dopo nelle sale di tutti i cinema degli Stati Uniti uscirà Braveheart, ma il vero cuore impavido veste indubbiamente la numero 9 gialloviola. 

Gli Spurs passeranno poi in gara6 al Forum per 100-88 facendo valere la loro superiorità e chiudendo la fantastica stagione dei nuovi Lakers. Quella gara5 persa in casa sarà però il campanello d’allarme di una squadra che nel turno successivo si farà sculacciare dai Rockets di Olajuwon, con Robinson umiliato e Rodman sempre più fuori controllo. Una squadra che dovrà aspettare la venuta di Tim Duncan per liberarsi di tutti quei fantasmi che le impedivano di compiersi in un team da titolo.

I Lakers mettono da parte le considerazioni tecniche (ad esempio un Ceballos nella serie a 12.3 punti con il 38.5% dal campo) e guardano alla stagione conclusa con enorme soddisfazione. Questa squadra si è messa sulla mappa della lega e lo ha fatto in modo imponente, al punto da rendersi credibile agli occhi di Shaq l’estate successiva. In quei Lakers del ’95, in quel doppio tiro di Van Exel, ci sono i primi, ma decisivi, passi verso una delle più grandi dinastie della storia del gioco. Ironicamente nessuno di quei ragazzi a roster vincerà però anche solo un titolo in maglia gialloviola. Ma quei titoli sono, se non figli, nipoti lontani ma diretti delle imprese di Van Exel e compagni nella primavera del 1995.

 

 

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Alan Di Forte @Alan_TonyBrando


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