Fight Lamar, fight !


Las Vegas è conosciuta in tutto il globo come la capitale del divertimento e soprattutto del gioco d’azzardo. Un posto unico al mondo, dove si intrecciano ogni anno i destini e le storie di quasi 40 milioni di persone che accorrono in pellegrinaggio spinti dalla passione per il gioco, dalla voglia di passare una serata indimenticabile o semplicemente per prendere parte anche solo da spettatori curiosi alla vita di quel carrozzone unico.
E’ così che ogni giorno nelle hall dei 19 tra i 25 alberghi più grandi al mondo, 365 giorni l’anno, i giocatori sfidano il fato affidando i loro risparmi alle lune di colorate e rumorose slot machine o mettendoli nelle mani dei più bravi croupier del mondo. E’ così da poco meno di un secolo.
Capita di incontrare personaggi famosi o perfetti sconosciuti, miliardari o poveracci, ragazzi ed escort, famiglie o vecchi rincitrulliti tutti con un unico desiderio in comune: quello di scommettere ( e magari vincere ).
Capita pure che in una tiepida sera d’autunno Kobe Bryant ed i Los Angeles Lakers si siedano “al tavolo” della MGM Arena per il consueto appuntamento annuale che li vede protagonisti a due passi dalla strip.
Poco lontano da lì, un ex Laker, Lamar Odom si sta sedendo ad un tavolo ben più importante. Va “all in” Lamar. Punta la sua vita. Scommette di essere in grado di riuscire a sconfiggere un cocktail di erbe afrodisiache miste ad alcool.

Curiosa e strana la storia di quell’uomo, proprio come una di quelle che ti capita di ascoltare mentre sei lì a Vegas, tra una puntata ed un’altra, in attesa che giri la fortuna al tavolo o che più semplicemente vengano mischiate le carte.
Perché sì, quel ragazzone nato a New York nel 1979 sarebbe totalmente a suo agio in quella città. L’espressione sempre sorridente, il fare scanzonato ed i vestiti alla moda, il suo essere perfettamente cool come chi, prima di andare al ristorante o entrare in un locale, si siede al tavolo per tentare la sorte.
Lui che per una vita ha dovuto scommettere e vincere contro numerose avversità. Ad appena 12 anni ha dovuto battere il destino che l’aveva privato della madre morta per un cancro al colon. Da uomo, tornato nella Grande Mela per il funerale di una zia, ha dovuto scommettere e sconfiggere il dolore più grande, cioè la perdita di un figlio di sei anni e mezzo.

La sua stessa carriera NBA era iniziata come una grande scommessa. Sì perché quando finisci nella peggiore franchigia dei primi anni 2000, i Clippers, è difficile scommettere sul tuo futuro, soprattutto se poi, oltre alle sconfitte sul campo, tante, sei costretto ad affrontare per due volte in otto mesi una sospensione per violazione delle politiche antidroga della Lega.
Eppure proprio quando in molti avrebbero scommesso contro Lamar, lui è riuscito, per un po’ a restare seduto a quel tavolo da vincitore, con fare sicuro e fiero: tante fiches guadagnate di fronte a lui e sopratutto due anelli luccicanti vinti da protagonista assoluto, andando contro diversi pronostici.

Insegnano i saggi del gioco che un tavolo che sta pagando non andrebbe mai cambiato a favore di un altro, soprattutto se la compagnia è quella piacevole.
Si perché seduti con Lamar, allo stesso tavolo da gioco, c’erano i Lakers. Insieme per 519 partite e ben 7 anni.
E’ vero, qualche mano negativa c’era stata, soprattutto quando le aspettative di chi lo immaginava come lo Scottie Pippen del nuovo millennio erano state deluse. Ma le vittorie e le gioie sono state sicuramente maggiori: 3 Finali NBA, 2 titoli ed il riconoscimento di miglior sesto uomo dell’anno.
Insegna Kevin Spacey, nelle vesti del professor Mickey Rosa in 21, che al tavolo di gioco bisogna imparare a contenere le proprie emozioni, quando si vince, ma soprattutto quando si perde.
Non ci riuscirono, talvolta,gli studenti del MIT Blackjack Team, non ci è riuscito nemmeno Lamar che, dopo una mano andata male ( Dio solo sa quanto è costata anche ai Lakers ! ) reagì d’istinto, alzandosi di scatto da quel tavolo e preferendo scommettere da capo, ancora una volta, solo contro il mondo.
Perché la delusione per essere stato inserito nella maledetta trade ( sfumata ) che avrebbe dovuto portare Chris Paul ai Lakers era, per lui che nella vita reale ne aveva superate di ben più pesanti, talmente grande da impedirgli di continuare a giocare seduto insieme ai Lakers.
Si sentì tradito Lamar, gli cadde il mondo addosso a tal punto da richiedere di essere scambiato, minacciando di non presentarsi più ad El Segundo finchè non gli trovassero una nuova squadra.
Da lì in poi il baratro, cestisco e non solo.
Dallas, un divorzio, i Clippers, persino una breve e fallimentare parentesi in Europa; poi un timido tentativo estivo ai Knicks.
Sostanzialmente la fine della sua carriera.

Da quel dicembre 2011 ad oggi i due ex fortunati compagni di gioco sono rimasti seduti, nello stesso casinò. Vicini da potersi osservare, Odom sostanzialmente tranne brevi periodi non è mai andato via da Los Angeles. Sicuramente vi è sempre restato con la mente ed i pensieri. Come quella volta in cui ai Clippers, nel 2012, si presentò così durante il media day “Hi I’m Lamar Odom of the Los Angeles Lakers.Oh I said Lakers ?”
Non una parola, poco più di qualche sguardo. In comune solo un destino fatto di tante, troppe sconfitte: in campo i giallo viola, nella vita Lamar.
Perché se da una parte, il front office giallo viola si svenava puntando invano sul numero 10 e 12, dall’altra Odom scommetteva su se stesso e sulla sua capacità di farcela, contro tutto e tutti, finendo in un bordello del Nevada in compagnia di whisky, puttane e droghe, praticamente da solo.
Fino a ieri, 13 ottobre 2015.
Fino al momento in cui il 24 in gialloviola abbandonando il casinò del MGM, si è recato in fretta e furia dall’amico, al Sunrise Hospital, senza dire una sola parola. Con il solo intento di riabbracciare il compagno di tante battaglie, con la speranza che non sia stata l’ultima volta.
Ed è certo che in quella 70 miglia di taxi, tra la Strip ed il triste sobborgo di Vegas, il pensiero di Kobe sia andato alle mille serate insieme.
Dalle deludenti notti trascorse tra la California e l’Arizona nelle primavere 2006 e 2007, alla serata invernale del 2009 a Cleveland, Ohio, quando proprio un gran secondo tempo dell’amico Odom salvò da una brutta sconfitta un Kobe febbricitante contro il suo più grande rivale dei tempi.
Come non ripensare alla felice notte dopo gara 5 ad Orlando trascorsa a festeggiare il primo titolo insieme ai Lakers, oppure a quella dopo gara 7 dell’anno successivo.
Oppure a quella sera a Boston quando una pacca sul sedere data a Garnett svegliò i Lakers, mandando totalmente in confusione gli avversari e portò all’ennesima vittoria gialloviola a Beantown.
Quanti ricordi. Come quello dell’ultima partita insieme, gara 3 a Dallas del 2011: una serata sofferta, con i Lakers chiamati alla disperata impresa di ribaltare una serie iniziata male (e finita peggio) contro i Mavs. Avanti con la forza dei nervi e della disperazione tutta la partita fino alla rimonta finale degli avversari e la tripla decisiva di Odom, proprio su scarico di Kobe, che finisce sul ferro.
Avrebbe voluto parlarne Bryant insieme a Lamar, anche ieri sera. Come fanno due vecchi amici che ricordano i bei tempi con un po’ di malinconia.

I Lakers del 2009 avevano l’abitudine di incrociare le braccia e di raccogliersi in cerchio attorno ad Odom. Lamar, non era il loro capitano, ne il primo o secondo miglior giocatore della squadra. Lui era lì, al centro e caricava i compagni, prima di ogni gara – Siamo la miglior squadra della NBA!- diceva ed i Lakers si gasavano con lui prima di ogni palla a due.
Ai tempi felici di Los Angeles il basket non era la sua unica attività. A Lamar piaceva la moda e così decise di lanciare una linea di abbigliamento tutta sua, fatta di t-shirts raffiguranti animali, immagini religiose e foto di posti particolari.
Tra le magliette prodotte ce n’era una raffigurante un campo da basket in bianco e nero. Si trattava del campo situato presso il Lincoln Park, il playground dove Odom stava giocando la notte in cui morì la madre, Cathy Mercer. Nella parte bassa della stessa maglietta una rosa. Lee Jankins, giornalista di Sports Illustrated, un giorno, nell’estate del 2009, gli chiese se quel fiore fosse lì a rappresentare la mamma. Lamar rispose di no. Disse che rappresentava ciò che può nascere dal cemento duro di quei luoghi.

Quella rosa era Lamar. Quella rosa deve sbocciare di nuovo e vincere anche questa scommessa. Forse la più difficile.

Fight Lamar, fight!


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